Minacce di espatrio e accuse di fascismo, storia del declino di una sinistra
“Nelle file del partito democratico cristiano si raccolgono masse di operai, di contadini, di intellettuali, di giovani, i quali hanno in fondo le stesse aspirazioni nostre perché al pari di noi vogliono un’Italia democratica e progressiva, nella quale sia fatto largo alle rivendicazioni delle classi lavoratrici.”
In questa frase pronunciata durante un comizio di Roma da Palmiro Togliatti nel 1944 troviamo la summa della politica comunista gramsciana, derivata da quella essenziale battaglia tutta volta a conquistare l’egemonia culturale e, conseguentemente, elettorale nel paese.
Una politica diretta alla conquista delle simpatie popolari, fatta di caparbi tentativi di comprensione verso le pulsioni delle masse, finanche di infiltrazione di militanti comunisti nelle principali organizzazioni avversarie per studiare, capire e convincere. Un modus visto all’opera, del resto, anche durante il ventennio mussoliniano, quando fare gli antifascisti era decisamente meno comodo di farlo ora, a fascismo ben concluso.
Con questo breve incipit storico non voglio di certo accusare di fascismo il nuovo esecutivo, visto che ci pensa già abbondantemente il coro di media e stampa mainstream impegnato a dipingerci Salvini come il nuovo Goebbels e Di Maio come un incapace inetto, sorvolando ben volentieri sui motivi del successo elettorale dei due soggetti e sulla migrazione, pressoché completa, delle classi popolari verso i loro partiti.
Voglio al contrario far notare il profondo cambio di paradigma che ha coinvolto la cultura progressista del nostro paese, passata da una umile e pur encomiabile opera di convincimento ad una licenza di denigrazione ed offesa senza precedenti, o alle risibili minacce d’espatrio (ahimé raramente seguite dai fatti) provenienti dagli spalti più chic del proscenio intellettuale, sintomo, più che di una presunta aristocrazia del pensiero, di una dissociazione dalla quotidiana realtà di milioni e milioni di abitanti che delle promesse del cosmopolitismo glamour, finora, hanno raccolto solo gli ampi lati deleteri, dall’immigrazione senza sosta alle delocalizzazioni, dalla concorrenza salariale al ribasso all’assenza di sicurezza nelle periferie.
Viviamo giorni nei quali il prezioso contributo liberal al dibattito politico, al posto di concentrarsi sulle contraddizioni e i danni del modello fin qui proposto, sciorina mete di destinazione ed approdo della autoproclamata “parte migliore del paese”, che vuole scendere dalla giostra, che vuole fuggire dai populismi, dai nazismi, dai fascismi e vivere in un eden fatto di abbracci multiculturali, sorrisi europeisti e simposi tra anime belle, dimenticandosi che il modello cosmopolita tutto ponti e abbracci tanto propagandato è talmente condiviso che ormai in qualsiasi parte d’Occidente soffia fortissimo il vento del sovranismo, della riappropriazione degli spazi, delle identità e dei confini, dal governo gialloverde alla Brexit, dall’Austria al gruppo Visegrad, da Putin a Trump.
La sinistra paga il conto delle tante promesse di salvezza fatte e giocoforza mai mantenute, nonché della propria lontananza culturale e della propria autoreferenzialità, che hanno fatto passare un intero scacchiere politico dalle rivendicazioni giacobine alla puerile distribuzione di brioches al sapore di Maria Antonietta. Mai un tentativo di comprensione, mai l’umiltà di calarsi nella parte dell’elettore leghista, delle istanze espresse dagli altri, mai la capacità di comprendere il presente e le sue contraddizioni ma sempre l’insopportabile spocchia nell’encomiarlo, nel ritenerlo l’unico mondo possibile, nel ritenerne le opposizioni sempre puzzolenti e impresentabili, finendo col divenire guardiani d’ordine e depositari delle responsabilità dell’esistente.
Il problema è che il palazzo reale sta cadendo a pezzi e rivendicare con orgoglio la propria fuga dalla realtà non fa che amplificare il proprio fallimento, così come continuare a dipingere l’alternativa come una masnada di fascisti, razzisti e nazisti non fa che spingere ulteriormente il popolo verso la realtà, irrimediabilmente diversa dagli aristocratici peri nei quali restano assisi, fortuna loro, la maggior parte degli odierni narratori.
Viene proprio da dire che qualunque simpatizzante leghista, qualunque elettore di centrodestra o militante pentastellato non deve affatto augurarsi la scomparsa dell’attuale sinistra, ma deve augurarsi una sua lunga presenza tra noi mortali e una sua forte salute, perché a fronte di una alternativa tanto inconsistente la rendita è assicurata per almeno un lustro.
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