Francesco in Israele: un ‘fatto’ che può cambiare la storia
Sono stati in molti a tirare un sospiro di sollievo quando hanno visto l’aereo di Papa Francesco innalzarsi dall’aeroporto Ben Gurion alla volta di Roma, lasciandosi dietro la matassa dei complicati rapporti in Terra Santa non certo cambiati ma forse un po’ più allentati di prima.
A respirare con sollievo sono stati i quasi 20 mila agenti di polizia, gli operatori dei radar dell’esercito, gli uomini e e le donne dei servizi di sicurezza, i diplomatici, e i burocrati civili e religiosi, ebrei, cristiani e musulmani che hanno trepidato per 72 ore per la possibilità di qualche incidente che avrebbe dato ai media quello che questo viaggio invece non é stato.
A respirare sono stati gli abitanti di Gerusalemme che per tre giorni hanno subito borbottando amichevolmente, stupiti e curiosi, il comportamento di questo gesuita che sembrava parlare a ciascuno di loro con parole che nessun capo di stato, o semplicemente nessun politico, aveva mai pronunciato prima. Un Prete falsamente bonario, che ha ricordato a tutti la responsabilità dell’uomo e non del Creatore, per gli stermini. Che ha ribadito che la Shoah non é solo un evento storico ma un evento unico in questo genere: lo sterminio di esseri umani non per territorio, non per idee, non per inimicizia, ma solo in quanto esseri umani. Questo non era mai avvenuto.
Come non era mai successo che un capo di stato andasse a inchinarsi sulla tomba del fondatore del sionismo, quel movimento tanto odiato dagli arabi e dalle sinistre da essere diventato un termine di disprezzo di uso comune come fascismo, colonialismo etc. Un gesto che ha conquistato il cuore degli israeliani, anche di quelli più agnostici e di destra.
Un pellegrinaggio che non si può descrivere con il solito termine “storico” ma piuttosto come uno straordinario “merletto” fatto di fede – politica – storia – multi religiosità. Un “merletto” che forse potrebbe cambiare “i fatti” sul terreno, almeno da quello che emerge dal confronto di questo viaggio papale coi tre precedenti.
Il primo che fu anche il primo nella storia, quello di Paolo VI nel 1964. La guerra dei Sei giorni non era ancora avvenuta, l’occupazione israeliana della Cisgiordania non c’era, Israele non era stato riconosciuto dal Vaticano. Il comportamento del Pontefice fu allora percepito da Israele come uno schiaffo ingiustificato e forse voluto: rifiuto del Papa di arrivare direttamente da Amman a Gerusalemme, col risultato che l’incontro col Presidente Shazar avvenne nei campi e attraverso una barriera di fili aperti in onore di Sua Santità. Poca attenzione al popolo scomparso nella Shoah, fredda cortesia protocollare nell’invio a Tel Aviv, dall’aereo che lo riportava in Italia, del ringraziamento per l”accoglienza” ricevuta, al presidente Shazar.
Non sono “fatti” che facilmente si dimenticano.
Passano gli anni. Arriva la bufera diplomatico-religiosa di Papa Giovanni Paolo II, preceduta dalla visita del “Vescovo di Roma” al Rabbino capo di Roma (non del sovrano della Stato Vaticano ma del Vescovo di Roma come ci veniva confidenzialmente spiegato dai portavoce vaticani).
Poi il riconoscimento dello Stato d’Israele, a cui segue una visita mozzafiato del Pontefice che conquista Israele, inserisce una preghiera fra le pietre squadrate del Muro del Pianto, sintetizza l’importanza del conflitto palestinese e della necessità di risolverlo. Il ghiaccio fra Roma e Gerusalemme é rotto ma la fiducia non é ristabilita. Lo dimostra il lungo, puntiglioso protocollo di accordo sui diritti di tassazione, riconoscimento e autonomia dei beni ecclesiastici, che ancora attende di essere firmato.
Arriva Francesco: non dice a Israele cosa fare. Suggerisce come fare. Con una semplicità e (studiata) spontaneità che tocca i cuori. Non dice cosa fare ma come fare, affermando davanti alle ceneri del memoriale della Shoah, davanti alla placca marmorea dei morti causati a Israele del terrorismo islamico, che la crudeltà non é responsabilità divina ma dell’uomo.
Mette anche lui un messaggio per il Creatore fra le pietre squadrate del Muro del pianto, fa drizzare i capelli ai politici e ai realisti quando si ferma a riflettere appoggiandosi al muro anti terrorista che divide Israele dalle così dette zone occupate, il solo muro di sicurezza, fra tutti quelli eretti nel mondo, condannato dall’ONU.
Infine la ciliegia sulla torta: invito accettato dal presidente palestinese e da quello israeliano (entrambi agnostici e in fin di carriera) a venire – penso – nel suo studio a Roma a pregare assieme. Per cosa? Non certo per l’ecumenismo ma per la pace.
Se questi gesti e parole non sono fatti a me sembrano pietre squadrate per un tempio che non é quello di Gerusalemme (che la Bibbia dice non dover essere toccate dal ferro) ma forse, chissà, per un tempio di fede per la pace.