Così il cemento uccide l’Italia
In linguaggio tecnico si chiama “urban sprawl”, dispersione urbana, il fenomeno che dal boom economico degli anni ’50 ad oggi – con un sostanziale incremento dagli anni ’80-90 e uno stop negli ultimi anni a causa della crisi economica – ha caratterizzato il territorio italiano. Un’espansione delle aree urbane verso le periferie delle città, spesso in modo incontrollato, che produce un rapido e inesorabile consumo del suolo e del verde a discapito delle campagne.
Nell’inchiesta pubblicata da Enrico Arosio su L’Espresso, dal titolo emblematico “Ci siamo mangiati l’Italia”, emerge un quadro sconfortante: “dal dopoguerra il consumo del suolo è più che raddoppiato. Dal 2,7 nel 1956 al 7 per cento nel 2014. Secondo il rapporto Ispra ‘Il consumo del suolo in Italia’ (2015) sono stati intaccati 21 mila dei 301 mila chilometri quadrati del territorio nazionale: più a Nord-Ovest (8,4 per cento), meno al Sud (6,2). In ben 15 regioni si supera il 5 per cento di suolo consumato; in Lombardia e Veneto oltre il 10”. Dati allarmanti che sintetizzano un aumento del territorio costruito senza una precisa progettualità e con fini meramente speculativi, basti pensare che il 20 per cento delle 30 milioni di abitazioni presenti sul territorio italiano, sono disabitate.
Va da sé che Roma sia il simbolo di questa tendenza. Sebbene il piano regolatore avesse previsto uno sviluppo della città verso est, negli anni si è assistito a un’espansione a macchia d’olio che ha interessato tutte le zone della città con la costruzione di enormi quartieri dormitorio e centri commerciali ormai diventati simbolo dell’espansione urbana non regolamentata.
A differenza di Roma che, seppur si espande su un territorio comunale ampissimo, a tutt’oggi è delimitata da confini che ne caratterizzano la fine, Milano e Napoli sembrano non avere fine sviluppandosi in modo policentrico grazie ai comuni dell’area metropolitana.
L’avanzata del cemento non si ferma nemmeno davanti al territorio costiero: “dal 1985, malgrado i vincoli della legge Galasso, sono stati urbanizzati altri 222 chilometri di litorale, denuncia il rapporto Legambiente “Salviamo le coste italiane” di agosto 2015. Il 56,2 per cento delle nostre aree costiere, da Trieste a Capo Spartivento, è stato trasformato dal cemento”.
Se a questi dati si sommano le trasformazioni dovute al cambiamento del clima come la diminuzione della superficie dei ghiacciai italiani dal ’62 ad oggi del 30% (si è passati da 527 a 370 chilometri quadrati), il quadro è drammatico. Un caro su tutti il ghiacciaio della Marmolada passato da 3,1 kmq a 1,9.
Oggi, con i primi cauti segnali di ripresa economica, la recente legge Madia preoccupa non poco. Con il sistema del silenzio-assenso, se le Soprintendenze non risponderanno entro 90 giorni dalla richiesta di costruire, chi avrà inoltrato la domanda, in assenza di risposta, potrà procedere. Un meccanismo pericoloso che rischia di portare nuovi scempi al già martoriato panorama italiano soprattutto a causa dell’endemica carenza di personale delle Soprintendenze. Un sistema che avrebbe senso nelle Regioni in cui sono stati approvati i Piani paesaggistici, purtroppo non tutte.
Nonostante questo quadra qualche segnale positivo c’è: negli anni sono cresciute le aree naturali protette, ad oggi il nostro paese conta 24 parchi nazionali, 27 Aree marine protette, 147 Riserve naturali statali e 134 Parchi naturali, oltre le 130 Oasi del Wwf. Parallelamente alla perdita di terreno agricolo, si assiste all’aumento del territorio del bosco aumentato da 4 a 11 milioni di ettari.
Analizzando la cementificazione nel nostro paese, quello che emerge non è tanto l’incremento di costruzioni – di per sé normale con l’aumento della popolazione – bensì la mancanza di una precisa progettualità, soprattutto a livello locale, che impedisce uno sviluppo intelligente e regolato delle città.
Colpisce, specie nei grandi centri urbani, la presenza di cantieri che costruiscono nuovi quartieri e abitazioni e, al contempo, la presenza all’interno dei nuclei urbani di intere zone abbandonate, edifici fatiscenti, fabbriche dismesse. Occorrerebbe iniziare riqualificando le zone e gli edifici già presenti piuttosto che continuare nella purtroppo sistematica opera di distruzione del paesaggio italiano. Lo stesso vale per le grandi opere che sono necessarie per la crescita del paese. Ben vengano se realizzate tutelando il paesaggio e rispettando le regole paesaggistiche che nel nostro paese esistono e sono all’avanguardia. Al contempo esistono però cavilli e sotterfugi per aggirarle, un buon inizio sarebbe combattere e denunciare chi, per fini meramente economici, si fa sfregio di tali regole.