Dopo tre mesi in Ungheria è tempo di rientrare in Italia ma, come ogni lungo viaggio che si rispetti, il rientro non è mai uguale alla partenza e, a una fisiologica malinconia per ciò che si lascia alle proprie spalle, subentra l’eccitazione per nuove sfide e progetti da affrontare con una nuova consapevolezza, arricchiti da una prospettiva diversa sotto tanti punti di vista. Ho trascorso questi mesi svolgendo una fellowship all’MCC (Mathias Corvinus Collegium), il principale collegio universitario ungherese che è anche un think tank con sedi in tutto il paese. È una realtà in forte crescita con professionisti ungheresi che sono affiancati da studiosi e docenti provenienti da tutta Europa ed è formata in prevalenza da giovani con l’obiettivo di educare la classe dirigente ungherese del futuro. Al tempo stesso è una struttura con una forte vocazione internazionale che, unita all’attività di fondazioni, riviste, istituti, rendono Budapest un luogo attrattivo per i conservatori di tutto il mondo. Non è un caso che alcuni dei più importanti intellettuali e giornalisti conservatori americani ed europei abbiano deciso di spendere un periodo di tempo a Budapest.

Lo scopo del mio soggiorno era quello di conoscere meglio l’Ungheria e svolgere una ricerca sul pensiero conservatore magiaro e dell’Europa centrale. In questi mesi ho conosciuto centinaia di persone, svolto conferenze in numerose città ungheresi (e in Slovacchia e Polonia), partecipato a trasmissioni televisive e radio, incontrato giornalisti, intellettuali, ministri ma anche cittadini che non hanno nulla a che fare con il mondo politico.

In Ungheria vivono circa dieci milioni di abitanti e, pur essendo una nazione da un punto di vista territoriale non molto grande, quotidianamente sui principali giornali, televisioni e media di tutto il mondo, si parla di questo paese, in particolare per le politiche del governo Orbán. Una tendenza che sarà destinata a crescere nei prossimi mesi, in particolare a inizio 2022 con le elezioni che rappresentano un appuntamento cruciale per il futuro dell’Ungheria. Inutile nascondere la verità: ad oggi l’Ungheria non gode di buona stampa; i principali media liberal e mainstream portano avanti una vera e propria campagna stampa contro il paese magiaro ma anche numerosi commentatori che possiamo considerare moderati, liberali o che si definiscono conservatori, non perdono l’occasione di attaccare l’Ungheria. Una delle prime cose che ho imparato dopo pochi giorni a Budapest è che gran parte degli articoli o delle notizie che leggiamo di questo paese sui principali media internazionali sono riportate in modo fazioso, tendenzioso quando non falso. Molti giornalisti scrivono dell’Ungheria senza nemmeno visitarla e  senza osservare di persona che cosa sta accadendo nell’Europa centrale, altri arrivano con già in testa l’articolo da scrivere. Qualche giorno, in uno dei principali giornali americani, commentando il discorso dell’anchorman di Fox Tucker Carlson a Esztergom, è uscito un articolo in cui si affermava che era avvenuto durante un evento di “far right”. In realtà si trattava di un festival studentesco con musica, concerti, dibattiti, stand gastronomici, affermare una simile inesattezza sarebbe già sufficiente per perdere tutta la credibilità nello scrivere di Ungheria.

Il principale attacco al paese magiaro è di non rappresentare una democrazia, un’accusa paradossale se si pensa che la capitale Budapest è governata da un sindaco di sinistra. Eppure, molti commentatori dell’Europa occidentale compiono l’errore di giudicare l’Ungheria e i paesi dell’Europa centrale e dell’Est con i nostri stessi criteri. Ciò è sbagliato per numerose ragioni ma una in particolare: fino a poco più di trent’anni fa in Ungheria e in Europa orientale c’era una dittatura comunista. Dimenticare la rivoluzione ungherese del 1956 o la Primavera di Praga nel 1968, significa non riuscire a comprendere cosa ha rappresentato il comunismo per questi popoli, ovvero l’oppressione di qualsiasi forma di libertà. Così come non possiamo dimenticare che, mentre nel ’56 gli ungheresi lottavano per la loro libertà, il Partito Comunista Italiano si schierava dalla parte dei carri armati sovietici. È vero che, paragonato ad altri territori, il comunismo in Ungheria è stato meno oppressivo (da qui l’espressione di comunismo goulash) ma il Kàdàrismo ha comunque rappresentato una forma dittatoriale che ha plasmato il carattere e la personalità degli ungheresi rendendoli restii a qualsiasi intromissione dall’esterno. 

Gli ungheresi sono un popolo caparbio e mal digeriscono che qualcuno da fuori dica loro cosa fare e come comportarsi o imponga decisioni contrarie alla volontà popolare. Più arrivano attacchi dall’esterno, più il fronte interno si compatta.

Un sentimento che ha origini antiche ma che nel Novecento si è sviluppato dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale, la dissoluzione dell’impero austroungarico e il Trattato di Trianon del 1920. In Europa occidentale Trianon rappresenta uno dei tanti trattati che hanno scandito il Novecento ma in Ungheria è una vera e propria tragedia nazionale le cui ferite non sono rimarginate ancora oggi. Le conseguenze per l’Ungheria sono terribili: rispetto al Regno di Ungheria la superficie territoriale si è ridotta di due terzi passando da 19 milioni a 7 milioni di abitanti. Se la multietnicità viene dissolta, al tempo stesso milioni di magiari si trovano a vivere in altri stati non sempre amichevoli nei loro confronti. Ancora oggi sono milioni gli ungheresi che vivono in Transilvania (Romania), Voivodina (Serbia), Rutenia (Ucraina), nel sud della Slovacchia e nelle aree di confine di Austria e Croazia. Il tema delle minoranze magiare negli altri paesi europei è molto sentito e non si può prescindere da questo argomento per capire la politica estera ungherese, così come dall’approccio pragmatico a metà tra Occidente e Oriente. Un pragmatismo che va di pari passo con una forte identità magiara rappresentata non solo dalla storia e dalle tradizioni ma anche dalla lingua ungherese, una delle lingue europee più difficili con origini antiche e oscure appartenente al ceppo linguistico ugro-finnico. 

Cosa mi porto dietro da questa esperienza in Ungheria? Oltre a tante nuove amicizie e a numerosi contatti, la consapevolezza che non possiamo continuare a giudicare con gli occhi di Europei occidentali quanto sta avvenendo in Ungheria imponendo politiche, regole e stili di vita che valgono alle nostre latitudini ma non per forza sono adatte all’Europa orientale e dell’est. Il dialogo e la collaborazione tra i paesi dell’Ue passano dal rispetto reciproco e non sempre noi europei occidentali rispettiamo le decisioni prese dai parlamenti dei paesi dell’area Visegrad né conosciamo la loro storia che ci aiuterebbe a comprendere meglio tante posizioni e a leggerle non con i nostri occhi ma con quelli di chi, fino a a poco più di trent’anni fa, viveva sotto una dittatura comunista e sa che cosa significhi vivere senza libertà e sovranità.

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