Pentiti veri e pentiti finti
Maria Concetta Cacciola non era una pentita ma una testimone di giustizia, (era la nipote del boss Gregorio Bellocco, il cognato di suo padre Michele) che aveva deciso di testimoniare contro la sua famiglia, poi aveva ritrattato tutto. È morta suicida quattro anni fa a Rosarno dopo aver ingerito dell’acido muriatico, in circostanze ancora da tutte chiarire. Se è stato omicidio si capirà nei prossimi giorni. Stando ai pm di Palmi a indurre la donna a ritrattare le accuse sarebbero stati tre parenti e due avvocati, tutti arrestati oggi. Proprio nel giorno in cui i giudici della Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria hanno ridotto la pena al padre ed al fratello della Cacciola – confermando quella per la madre della donna – per maltrattamenti (l’aggravante della morte come conseguenza di altro reato era venuta meno già in primo grado). È probabile che adesso l’indagine per omicidio volontario della Cacciola, morta in Calabria qualche giorno dopo aver lasciato volontariamente la località protetta per tornare a casa per riabbracciare i figli rimasti a casa dei nonni – abbia un’accelerazione. Lo Stato è in debito con questa donna coraggiosa. Lo dice bene il procuratore Nicola Gratteri: «Molte volte noi uomini di istituzioni non siamo stati all’altezza del compito di proteggere queste donne testimoni di giustizia, abbiamo sottovalutato il pericolo a cui andavano incontro. Credo serva maggiore professionalità da parte nostra soprattutto nei confronti di coloro che hanno il compito di cambiare le generalità e di adottare quelle misure necessarie per proteggere i testimoni».
I pentiti sono forse l’unica cosa che fa paura alla ‘ndrangheta. Ma bisogna stare attenti a non farsi manipolare da loro, a non restare ostaggio delle loro oscure macchinazioni, come purtroppo sembra essere successo a Reggio. Io ne ho conosciuto uno vero: si chiama Saverio Morabito. 25 anni fa o poco più con le sue deposizioni al processo Nord Sud ha decapitato la ‘ndrangheta milanese di allora. Tanto che i boss a Morsa (il suo nome in codice, come ricorda Luca Fazzo sul Giornale) vogliono fargliela pagare: «Quasi un quarto di secolo dopo, la caccia (…) è ancora aperta – scrive Fazzo – In una delle incaute chiacchierate intercettate dai carabinieri uno ‘ndranghetista (Agostino Catanzariti) lo dice chiaramente: vuole incontrare un finanziere corrotto che ha conosciuto in galera, “anche per sapere dov’è adesso Morabito. M’aveva detto: questo lo potremmo sapere che qualche amico ce l’ho”. A me Morabito per O mia bella Madu’ndrina mi aveva detto che non credeva né alla bontà di alcuni pentiti che avevano iniziato allora a collaborare (era il 2010) né tantomeno all’impianto delle operazioni anti ‘ndrangheta messe in piedi dalla Procura di Milano. Forse è il caso di ricordare quello che mi disse: «Il pentimento è una scelta. La ‘ndrangheta questi ce l’hanno nel sangue, nelle mura di casa». «E lei non crede a questi pentiti?». «No». La storia recente dei Lo Giudice, a distanza di quattro anni, gli dà ragione. Ma questa è un’altra storia.
Morabito mi aveva anche acceso mille lampadine con i suoi dubbi sulle inchieste di Milano, Infinito su tutte: «Ha letto le carte dell’inchiesta, ha visto i nomi che ricorrono? Oppedisano, Zappia, Pino Neri?». «Ci sono molti personaggi di secondo e terzo piano. Mi sembra per lo più gente che non ha mai preso una pistola in mano… Gente che parla di quelli che contano senza averli mai incontrati. Se non li hai mai incontrati, non conti niente…». «Gente di secondo piano?». «Sì. Quest’operazione non mi sembra significativa…». E se avesse ragione anche stavolta?