Il bombarolo meschino
Che cosa sta succedendo a Reggio Calabria? Difficile dare una risposta a ogni punto interrogativo che si è acceso in città. I commissari hanno altri sei mesi per evitare il dissesto finanziario – e non è detto che ci riescano, e non è detto che non sia un bene che non ci riescano, ma questa è un’opinione personale – ma i problemi intanto si accumulano come la spazzatura.
L’emergenza ambientale è conclamata, le responsabilità anche in questo caso sono molteplici, su tutte la pervasività della ’ndrangheta nella società municipalizzata che gestisce la raccolta, come dimostra l’andamento del processo sull’infiltrazione da parte della cosca Fontana nella Leonia, la società mista del Comune di Reggio Calabria deputata alla raccolta dei rifiuti in città, uno degli elementi scatenanti che hanno portato il governo a sciogliere per contiguità con la ’ndrangheta il Comune di Reggio Calabria.
Della polemica contro il presidente dell’Antimafia Rosy Bindi e delle presunte pressioni che il Pd avrebbe fatto sull’esecutivo per prolungare di altri sei mesi il commissariamento preferisco tacere: l’inadeguatezza della Bindi per il suo incarico è forse solo pari alla piccineria di certe speculazioni politiche.
Intanto Reggio molte cose covano sotto la cenere, e non solo sotto quella prodotta dai rifiuti bruciati: c’è una buona fetta di classe politica che dovrà rispondere in aula sul caso Leonia (dall’ex sindaco facente funzioni di Reggio Calabria, Giuseppe Raffa, agli ex assessori Paolo Anghelone, Enzo Sidari, Antonella Freno, Michele Raso, Giuseppe Plutino e Dominique Suraci – entrambi già in carcere per reati di mafia – Tilde Minasi, Rocco Lascala, Pasquale Zito, Amedeo Canale, Sebastiano Vecchio e Demetrio Porcino).
L’omicidio nei giorni scorsi di Franco Fabio Quirino può essere l’inizio di un regolamento di conti più complesso, visto che la zona di competenza è nella terra di mezzo tra il territorio controllato dai Serraino, dai Rosmini e dalla cosca Zindato-Libri-Caridi-Borghetto (in questi giorni alla sbarra al processo Alta tensione), di cui pare Quirino fosse una testa di legno che forse sognava di diventare un boss. L’omicidio si è consumato nella notte in cui la Rai trasmetteva Il giudice meschino, fiction girata proprio a Reggio Calabria, su un magistrato che si sveglia dal torpore dopo la morte di un collega che indagava – ironia della sorte – sui rifiuti tossici.
Per fortuna i magistrati reggini non dormono, anzi. A tenerli svegli ci sono le inchieste, i processi e la stagione delle bombe, che sembrava – anche questa – un lontano ricordo. Sull’attentato al pasticceria-gelateria e bar Malavenda, (ahinoi un dejà vu) più che alla bomba alla salumeria in una traversa del Corso Garibaldi mi sono fatto un’idea: forse Demetrio Malavenda paga la pubblicazione di un suo interrogatorio del 30 ottobre 2012 davanti al pm Musolino, quando chiarirà la vicenda della ristrutturazione dei suoi bar (la gelateria a Piazza De Nava, una volta teatro di un omicidio ai tempi della guerra di mafia e il grande bar a Piazza Duomo, che oggi rischia di diventare un Burger King) da parte del presunto boss dei rioni Condera e Pietrastorta, Santo Crucitti, attualmente in carcere e alla sbarra per associazione mafiosa.
Dopo la riapertura nel 2001 – racconta Malavenda a verbale – il locale va ristrutturato. Crucitti, considerato un elemento di spicco della ’ndrangheta in quota De Stefano, viene presentato ai gestori da un collaboratore che per 500mila euro ristruttura i due locali. Soldi che Malavenda farà fatica a pagare (anche perché alcuni lavori non sarebbero stati fatti a regola d’arte) con il rischio di perdere i due bar, visto che il presunto boss avrebbe ventilato l’ipotesi di girare il credito ad altre persone.
Non basta. Tra il 24 e il 25 febbraio 2008 il bar Malavenda di ponte della Libertà venne distrutto da un attentato dinamitardo, una settimana esatta dopo la cattura di Pasquale Condello detto il Supremo. «Tra le macerie – ricorda il giornalista Claudio Cordova, fresco consulente della commissione Antimafia (auguri) – venne ritrovato un berretto di cui non è mai stato identificato il proprietario. Un ritrovamento che la stessa famiglia Malavenda avrebbe inteso come una comunicazione: “Siete stati puniti perché non vi siete tolti il cappello”».
Ma soprattutto Malavenda ricorderà fino alla guerra di mafia tra il 1985 e il 1991 che le famiglie ordinavano ma non pagavano, tanto da spingere la famiglia Malavenda a non rifornirsi più di determinate marche, di cui la ’ndrangheta sarebbe stata ghiotta. «Per il torrone ora qualche cosa ve la regalo però Don Perignon dovete andare da Giordano o al Cordon Bleu, che lui ce li ha sicuro, gli diceva mio padre», racconta Malavenda al magistrato. «Un’assicurazione, perché tangente è brutto». E se l’attentato al bar dei giorni scorsi fosse una piccola vendetta postuma? Lo chiariranno le indagini.
Intanto nei giorni scorsi si è chiusa la requisitoria del pm Giuseppe Lombardo (di cui ho già parlato) al processo Meta (il miglior resoconto lo trovate qui), da cui mi preme tirar fuori alcuni passaggi chiari per capire la metamorfosi della ’ndrangheta che avevamo in parte intuito su Madu’ndrina: «Non esiste la ’ndrangheta orizzontale, non è mai esistita». Come nel libro di Orwell La Fattoria degli animali alcuni ’ndranghetisti sono più uguali degli altri. Chi? Naturalmente i capi delle cosche De Stefano, Tegano, Libri e Condello, il direttorio voluto da Peppe De Stefano per gestire il giro delle tangenti che «tutti devono pagare» (illuminante l’intercettazione da noi pubblicata sul libro che racconta lo sfogo di un imprenditore che si lamenta col suo estorsore perché oltre alla tangente il rampollo di una cosca pretendeva anche capi firmati, più o meno come Malavenda…).
La ’ndrangheta non è unitaria? Sì e no. Quella di Crimine (e di Oppedisano capo supremo) «è una verità processuale di assoluto rilievo – dice Lombardo – ma una cosa è il “Crimine” (la dote, ndr) del locale temporaneo che si crea a Polsi, una cosa è il locale a cui viene dato il “Crimine”, un’altra cosa è il soggetto a capo del locale con il Crimine», sapendo che c’è un’unica certezza: «Il Crimine a Reggio Calabria è Archi, così come sulla ionica è San Luca e sulla tirrenica Rosarno». Da questa triade non ci si muove. «La ’ndrangheta è unitaria, ma tutti hanno la consapevolezza di non essere parificabili».
Ecco perché le risultanze del processo gemello a Milano – Infinito, ma non solo – rischiano di fare a pugni con l’esito del processo Meta. Perché è difficile far convivere l’idea – e lo ribadisco – che per esempio Paolo Martino, ex killer destefaniano considerato il tesoriere della ’ndrangheta a Milano (processo Redux-Caposaldo) prendesse ordini da Pasquale Zappia, il presunto capo dei capi della ‘ndrangheta in Lombardia, eletto nel famigerato summit tenuto a Paderno Dugnano (Milano) nel 2009 nel centro «Falcone-Borsellino» e condannato a 12 anni di carcere. Ecco perché è cruciale capire cosa succede a Reggio Calabria. Alla Cassazione l’ardua sentenza?