Quella banca (privata) chiamata ‘ndrangheta
Adesso è ufficiale: gli imprenditori del Nord in bolletta si rivolgono alla ’ndrangheta per avere i soldi che servono a non chiudere. È presto per capire la complessità del fenomeno (non del tutto nuovo, anche se non di queste proporzioni) ma l’ indagine ’Ndrangheta Banking condotta dai carabinieri del Ros che ha portato a 17 arresti tra Reggio Calabria e la Lombardia è l’ennesima spia di un magma sotterraneo di malaffare che sta smontando l’economia tradizionale del Nord.
Secondo le indagini le più importanti famiglie di ’ndrangheta (il clan Imerti-Condello di Reggio Calabria e quello Pesce – Bellocco di Rosarno, nella piana di Gioia Tauro) avrebbero fatto affari grazie alle enormi risorse frutto del traffico di cocaina – di cui la ’ndrangheta è sostanzialmente monopolista – creando un circuito parallelo per finanziare imprenditori lombardi e calabresi. «È una sorta di cartello di cosche di ’ndrangheta che si appoggiava a una stessa persona per gestire i prestiti a usura» – dice il procuratore capo della Dda di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho.
Tra i 17 indagati arrestati nell’operazione ce n’è uno molto importante. Si chiama Gianluca Favara, già arrestato nell’ambito dell’operazione Meta e Reggio Nord, considerato dagli inquirenti un uomo di fiducia dei Pesce-Bellocco in grado di intrattenere rapporti d’affari anche con altre cosche di ’ndrangheta e persino con mandamenti mafiosi di Gela grazie a una rete di cosiddetti «procacciatori», tra cui un altro personaggio già noto alle cronache, Pasquale Rappoccio (coinvolto peraltro in un’inchiesta sulle forniture sanitarie all’Asl di Locri assieme alla vedova Fortugno, Maria Grazia Laganà, ex deputata Pd).
Il giochino dei procacciatori era semplice: si trova l’imprenditore in difficoltà, si presta denaro a tassi usura i (il 20% al mese, secondo il Ros) , e ci si impadronisce delle aziende. Complice la sfrontatezza di certi imprenditori ganassa (o forse solo disperati…) che pensavano di potersi disfare facilmente di quattro calabresi coi soldi facili o semplicemente (e qui ci sarebbe da aprire un ragionamento più complesso) si contrattava un prestito. E quando non si onorava scattava il metodo mafioso: quello che l’imprenditore che ha svelato il sistema criminale ha raccontato agli inquirenti dopo essere stato pestato a sangue e lasciato letteralmente in fin di vita.
Il meccanismo dei prestiti «agevolati» diventati usura e usati per scalare le società attraverso finanziarie di comodo era emerso nell’inchiesta che aveva portato all’arresto di Giovanni Ficara (l’uomo a cui l’ex 007 Giovanni Zumbo aveva spifferato l’esistenza dell’inchiesta Crimine-Infinito mesi prima del blitz) che qualche anno fa aveva preso di mira gli appalti di Expo 2015. Grazie all’operazione Reggio Sud si era scoperto che Ficara aveva fatto avere prestiti agevolati alle aziende di cui aveva acquisito le quote, malgrado non ne ricorressero i presupposti, attraverso una società finanziaria di cui aveva il controllo in modo da salvarle dal dissesto.
Insomma, la ’ndrangheta non conosce miseria, anzi. Non è escluso che di questo sistema si siano serviti anche altri imprenditori in bolletta. D’altrone, le famiglie calabresi possono disporre di enormi quantità di denaro. Basti pensare, ad esempio, al presunto broker Domenico Trimboli, alias « Pasquale », bloccato nei giorni scorsi a Caldas, nei pressi di Medellin. Latitante dal 2009, quando si era sottratto ad un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip del Tribunale di Reggio Calabria per traffico di stupefacenti, Trimboli secondo gli inquirenti era in grado di organizzare ingenti traffici di stupefacenti dal Sudamerica all’Europa per conto delle cosche della jonica. O come Roberto Pannunzi, fermato ormai un anno fa a Bogotà, e secondo gli inquirenti in grado di esportare fino a due tonnellate al mese di cocaina dalla Colombia all’Europa.
La filiera della cocaina vale 500 miliardi di dollari l’anno in una rete che comprende i campesinos che la raccolgono, i chimici che la raffinano, i broker che la piazzano ai corrieri e giù giù fino agli spacciatori. Si calcola che a Milano (in base alle analisi sulle acque) circolino 5,5 dosi giornaliere ogni mille abitanti. Calcolando 1,316 milioni di abitanti significa più o meno settemila dosi al giorno. Con un prezzo che oscilla sui 50-70 euro a dose parliamo di almeno 350mila euro al giorno di contanti. Che fine fanno questi soldi? O entrano nel circuito tradizionale come ho già spiegato su Madu’ndrina attraverso la cosiddetta «invasione fiscale» oppure finisce in questi circuiti paralleli. Con il risultato di inquinare – oltre l’acqua che beviamo – anche l’economia. E la politica rimane a guardare…