La sconfitta della Dda di Milano di cui nessuno parla
Spiare i magistrati non è mafia. Gestire un bar davanti al Tribunale per carpire i segreti di chi indaga sui boss non ha i connotati per dimostrare «l’esistenza, fuori dalle aree di origine, di un’associazione mafiosa connotata da un impegno reciproco e costante, funzionalmente orientato alla struttura e alla attività dell’organizzazione criminosa». Questo perché il genero di uno dei tanti Totò Riina della ’ndrangheta – alias Antonio Mancuso della feroce locale di Limbadi a Vibo Valentia – che si chiama Luigi Aquilano, secondo i giudici «non prendeva ordini dalla “casa madre” in Calabria e non aveva una “sua” cosca», anzi rivendicava un’autonomia confermata anche dalle furiose liti con i famigliari. E quindi le 21 persone che a vario titolo gestivano il bar di via Manara 7 a Milano (dietro il bancone c’era anche la figlia e nipote dei boss Guglielmo e Giuseppe Fidanzati, non indagata) tra traffici di droga, operazioni di «recupero crediti» su commissione aggravate dal metodo mafioso e imprenditori minacciati vittima di estorsioni, sono stati condannati a pene molto pesanti ma senza l’aggravante del reato associativo più grave. La gravissima ipotesi che il bar fosse utilizzato per spiare i magistrati di Milano come centrale d’intelligence, proprio sotto il naso della Procura, non ha retto.
Se non è una sconfitta della Dda di Milano, poco ci manca. Ma i giornaloni oggi in edicola sul punto fanno finta di non vedere per non disturbare il manovratore. Non è certo colpa del Gup Guido Salvini che li ha condannati né del gip Lidia Castellucci, che al tempo respinse 26 misure cautelari richieste dalla Dda di Milano, se l’aggravante non è stata contestata. Ma di un’impostazione arcaica, rigida e fuori contesto del concetto stesso di mafia. Qualche tempo fa il capo dell’Antimafia milanese Alessandra Dolci (prossima a sostituire Antonio Chiappani alla Procura di Bergamo) disse che bisognava chiudere i bar delle periferie milanesi in mano alle cosche. E questa frase dimostra anche perché il fenomeno è sottovalutato e sottoindagato – alzi la mano chi ricorda un’indagine recente «vera» sulla mafia a Milano – financo non adeguatamente compreso. Spiace che il lavoro della coraggiosa pm Alessandra Cerreti (che ha lavorato anche a Reggio Calabria e che il fenomeno lo conosce benissimo) non sia stato sufficientemente strutturato per sopravvivere al giudizio del gip, ma se l’idea è che le cosche controllino «solo» i bar dell’hinterland, allora stiamo freschi. Da anni i bersaglieri delle mafie hanno rotto le Porta Pia delle Ztl a Roma, Milano e Torino, da tempo i boss spadroneggiano nei salotti buoni delle città con la complicità della borghesia mafiosa (su cui non si indaga abbastanza). Non so se è peggio scoprire che la mafia a cui dai la caccia altrove è quella che ti prepara il caffè, facendoti fare la figura del cretino, o non riuscire a dimostrarlo fino in fondo. C’è forse un problema di formazione, di preparazione, di studio della mafia sotto profili che non siano squisitamente penali ma semplicemente culturali, antropologici, filosofici.
Pensare che il genero di un boss come Mancuso abbia bisogno di farsi una cosca per comandare e imporsi è un ragionamento che sfiora il ridicolo e sembra ignorare i principali paradigmi della grammatica familistica a cui la ’ndrangheta si abbevera. Non capire la differenza tra chi è potenzialmente ’ndrangheta per censo come Aquilano e chi «’ndranghetia» per darsi delle arie ha già portato in galera con condanne pesanti personaggi minori (vedi Crimine e Infinito) la cui unica colpa era parlare di riti e santini a cena, senza mai sparare un colpo e senza neanche saper tenere la pistola in mano, in nome di una presunta «unitarietà della ’ndrangheta» sancita da recenti sentenze di Cassazione che ignorano o sottovalutano il ruolo di alcuni mammasantissima sciolti come cani da guardia o protetti dall’uniforme della «Santa», la carica che (non sempre, viaddio) protegge l’élite di ’ndrangheta – quella che flirta con servizi e massoneria – dal rischio di finire in gattabuia. Dunque, a fronte di una mafia liquida, quantistica e multiforme a Milano siamo fermi al moloch giuridico per cui se sei il rampollo prescelto di una famiglia importantissima ma non hai una cosca «tua» non sei mafioso. Sì, certo. Come no…