Mamma comunismo
Il comunismo ha prodotto milioni di morti, ma tra le ideologie tragiche del Novecento è quella che ha stimolato un numero pressoché sterminato di opere d’arte, murales, film, documentari, pitture, sculture, canzoni, saggi. La sua mitologia vive proprio di questa doppia polarità: quella drammatica, fatta di uccisioni, soppressioni, gulag, attentati, tiranni, livellamenti di povertà, e dall’altra parte un fiume sempre vivo di rielaborazioni artistiche, filosofiche, espressive, fatte in suo nome, nel nome di un’uguaglianza degli umani, in ogni paese del mondo dove il comunismo ha attecchito come aspirazione e movimento politico. Il nazismo promosse solo un’arte e un’architettura civile di propaganda. Il comunismo invece ha permeato di se stesso non solo l’arte propagandistica di regime, dall’Unione Sovietica alla Cina, ma anche la libera, liberissima arte occidentale, che per lunga parte del Novecento è stata capitalistica nei proventi e nei guadagni e comunista nei propositi: si pensi ai vari cantautori che hanno guadagnato miliardi (per loro stessi) predicando povertà e uguaglianza (per tutti). La difficoltà del comunismo a morire risiede anche in questa mitologia espressiva, artistica, sociale che l’ideologia di Marx ha saputo generare su se stessa (con esiti a volte di pregevole valore estetico, come il retorico Funerali di Palmiro Togliatti fatto da Renato Guttuso). Se non arriverà mai dal mondo una condanna unanime del dittatore comunista della Corea del Nord è anche per l’alone di suggestione espressiva e culturale (e dunque di accondiscendenza) che l’uguaglianza predicata dall’ideologia rossa ha saputo infiltrare nelle vene più profonde della pelle occidentale.