La solitudine dell’Astrattismo
Pier Paolo Pasolini, negli anni ’60 e ’70, affermava poeticamente, in più scritti, che il rischio del nostro tempo, il rischio di tanti intellettuali e artisti, è quello dell’essere persi “in un puro intuire in solitudine”. L’Astrattismo, che è la lingua del Novecento, ha sempre rischiato – e come linguaggio tuttora rischia – questo: l’essere perso in un puro intuire in solitudine. Cioè testimoniare soltanto l’afonia della propria voce, l’incapacità di cambiare o di incidere qualcosa nel mondo. Da grande sperimentazione che, da fine Ottocento, con Redon, superava l’obbligo della raffigurazione di ciò che vedevano gli occhi, da grande perlustratrice degli abissi della mente, dei suoi equilibri e disequilibri, con Ciurlionis, Kupka, Kandinskij, Klee, Malevic, Mondrian nei primi decenni del Novecento, la voce che superava la figura, la raffigurazione del sensibile agli occhi, ha così permeato nel corso di mezzo secolo il linguaggio artistico, cartellonistico, pubblicitario, sociale, da divenire immagine del secolo stesso: il taglio di Lucio Fontana e il grande Cretto di Alberto Burri cementificato sulle macerie del paese di Gibellina, in Sicilia, polverizzato dal terremoto, sono l’apice espressivo dell’Astrattismo, ma anche il suo punto di non ritorno, cioè il punto in cui quel linguaggio stesso ha definito il proprio compimento. Oltre quello, ci sarebbe stato, in quella direzione, solo la replica, il ripiegamento, l’epigono, la maniera. E così è stato. L’Astrattismo è il simbolo del Novecento, ma nello stesso secolo è accaduto il suo annichilirsi in solipsismo, in un puro e perduto intuire in solitudine. Grandi combattenti contro questo solipsismo ci sono stati e ci sono, ma sono rimasti e rimangono ai margini per celebrare finora soltanto la solitudine dell’Astrattismo, ripiegato su se stesso.