La dolce vita dei balordi
Gira e rigira, quando si parla di bombe spunta sempre fuori la Laura C. L’avevo scritto su Madu’ndrina e sul blog qui, adesso è arrivata la conferma. Nell’operazione del comando provinciale dei carabinieri di Reggio Calabria che ha portato all’arresto di dieci persone accusate di fare parte di una banda dedita al traffico di esplosivo, armi, sostanze stupefacenti, furti e rapine usavano tritolo dello stesso tipo di quello trovato nelle stive della nave «Laura Coselich» affondata durante l’ultima guerra mondiale al largo di Saline Joniche e per anni vero e proprio supermercato di espolsivi per mafia, camorra e ‘ndrangheta. Tanto che si pensa arrivi dalla sua stiva anche l’esposivo utilizzato per le stragi del 1992.
Nella banda di balordi non sembra ci siamo personaggi di spicco di ‘ndrangheta, sebbene per gli inquirenti della Direzione distrettuale antimafia alcuni degli arrestati sono ritenuti contigui, per parentela diretta, alla cosca Serraino-Franco che opera nella zona sud di Reggio Calabria. Ma da dove arriva l’esplosivo? Sembra sia stato sottratto ad una cosca di ’ndrangheta. Sottratto? A chi? E se fosse lo stesso utilizzato per gli ultimi attentati contro i negozi della città?
Altra domanda: è vero che c’era anche la villa (sottoposta a sequestro) di Luciano Lo Giudice, fratello del boss pentito Antonino, tra gli obiettivi colpiti dalla banda? Sono pazzi a toccare una cosca così importante? O forse i Lo Giudice non contano più tanto? E se qualcuno li avesse manovrati per mandare questo messaggio? E se dietro le soffiate che hanno portato agli arresti ci fossero le solite manine legate ai servizi segreti deviati? Tutte domande che è lecito porsi. Intanto si è saputo che proprio Antonino, il boss che ha iniziato a collaborare con gli inquirenti per poi ritrattare e fuggire dalla località protetta dove si trovava, salvo poi essere riarrestato, avrebbe anche tentato il suicidio, come ha ammesso deponendo in videoconferenza nel processo per la stagione delle bombe a Reggio Calabria del 2010. «Mi sento male, mi sento male – ha detto ad un certo punto – anche perché giovedì mi sono messo un sacchetto di plastica in testa e mi hanno salvato gli agenti della polizia penitenziaria». Di cosa ha paura Antonino? A quale verità credere?
Siccome niente succede per caso, l’operazione scatta nel giorno in cui il sostituto procuratore antimafia Beatrice Ronchi ha chiesto 200 anni di carcere per la stessa famiglia Lo Giudice tra cui 30 per Luciano, considerato il rampollo della famiglia e la mente imprenditoriale del clan e 26 per il presunto armiere della cosca, Antonio Cortese, considerato responsabile di diversi attentati. Per Saverio Spadaro Tracuzzi, carabinieri accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e incastrato da alcune inquietanti intercettazioni telefoniche, il pm Ronchi ne ha chiesti 20. Per «colpa» di quei brogliacci sono finiti nei guai per falsa testimonianza l’ex comandate del Ros Valerio Giardina e il suo vice Gerardo Lardieri, che si sono occupati della cattura del super latitante Pasquale Condello detto il Supremo. Un personaggio che ai Lo Giudice non piaceva e che avrebbero voluto vedere dietro le sbarre. Ci sono state delle soffiate dai Lo Giudice ai Ros utili a catturare il Supremo? E se è così, perché i Ros l’hanno nascosto?
Dice il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho che «c’è un indebolimento della ’ndrangheta» e che le cosche stanno mostrando i muscoli «ma siamo dentro un percorso di guerra». Una guerra che strazia Reggio, una città che «deve tornare ad essere libera». Ma senza capire come hanno fatto le cosche a sopravvivere a tutti i colpi inferti dalla magistratura è impossibile vivere. Se non si capiscono i contorni di quella zona grigia che sta un po’ con lo Stato e un po’ con le cosche non si capirà mai nulla del fenomeno. Lo dicono anche i vescovi calabresi: «Serve il coraggio della denuncia e la fuga da ogni omerta». E se ci fossero pezzi di Stato che nascondono la verità? Senza verità non c’è libertà.
PS. Intanto per un’altra cosca potente, quella degli Alvaro, è finita la bella vita. Anzi, la dolce vita. I giudici della VII sezione penale del tribunale di Roma hanno condannato alcuni membri del clan compreso il presunto boss Vincenzo Alvaro (figlio del capoclan Nicola, assolto invece Nicola Ascrizi, nipote di Vincenzo). È la vicenda nata dal sequestro dei locali romani più famosi come il Cafè de Paris, gestiti per conto della ‘ndrangheta. C’è chi i bar li faceva saltare in aria e chi se li comprava.