«Caro papà, per colpa mia hai dato la tua vita. Per paura e per vergogna, perché tuo figlio è un pentito». Comincia così la lettera di Carmine Venturino, il collaboratore di giustizia in odore di ‘ndrangheta condannato a 25 anni in Appello dopo la sua testimonianza che ha fatto ritrovare i resti del cadavere di Lea Garofalo, la coraggiosa testimone di giustizia calabrese che venne uccisa a Milano il 24 novembre del 2009 e il cui corpo fu bruciato in un magazzino a Monza.

Nella missiva, pubblicata dal Quotidiano della Calabria, Venturino si rivolge al padre Giuseppe, morto il 6 giugno scorso dopo diversi giorni di ricovero all’ospedale di Crotone in seguito al tentato suicidio del 24 maggio, quando si era impiccato a un albero.

Sembra che l’uomo fosse rimasto sconvolto da un servizio televisivo nel quale il figlio raccontava la dinamica dell’omicidio di Lea Garofalo. «Mi hai detto di non volermi più sentire al telefono quando hai saputo che ho collaborato ma nonostante vi siate fatti sempre negare e nonostante mi abbiate rinnegato io ti ho sempre portato nel mio cuore e ti porterò sempre con me – scrive il figlio al, padre – spero che l’Italia sappia che buon uomo eri, onesto e umile. La mia vita non ha più un senso e spero di rivederti al più presto. A presto, papà». Ora, è vero che quando Venturino si pentì, (era fidanzato con Denise, la figlia della Garofalo) il padre Giuseppe diffuse una lettera per dissociarsi ma è anche vero che, in una realtà complessa come quella calabrese, senza quella lettera di dissenso la vita del padre di un pentito sarebbe stata molto più complicata.

Qualche responsabilità però ce l’ha anche la tv. Perché la raccapricciante ricostruzione di un omicidio e dell’occultamento di un cadavere, peraltro persino bruciato e seppellito in un terreno, deve finire in tv? E per giunta senza filtri? Quante volte la tv si è prestata a «massacrare» mediaticamente un imputato, prima ancora che una corte emettesse un verdetto?

E poi, perché certi media si prestano a sparare a zero sulle persone coinvolte in un’inchiesta senza porsi alcun dubbio e senza il doveroso rispetto della presunzione d’innocenza? Con quale coraggio certi giornalisti fanno da megafono delle Procure? Forse perché così sono impuniti anche quando scrivono falsità? Perché è facile tenere bordone a ipotesi magari un po’ ballerine, mentre per opporsi a certe fantasione ricostruzioni ci vogliono le palle…

E allora diciamolo: se il padre si era dissociato dal pentimento del figlio, perché togliersi la vita? Forse per la vergogna per il brutale omicidio raccontato dal figlio, non certo per un maldestro senso dell’onore come a qualcuno piacerebbe pensare. Chi ha messo in onda quel servizio ce l’ha il coraggio di vergognarsi un po’?. Tanto, è morto il padre di un pentito di ‘ndrangheta che si era pentito del figlio, vero? E se questo ragazzo dovesse a sua volta tentare il suidicio? Di chi sarebbe la responsabilità di questo gesto estremo?