La laurea è il nuovo feticcio utile, secondo certa propaganda, a valutare l’abilità politica di un candidato o la capacità amministrativa di chicchessia. Di Maio del Movimento 5 Stelle è solo l’ultima vittima di una sequela di improperi contro chi avrebbe la colpa di non aver studiato, di non potersi sedere al prezioso tavolo imbandito della scienza, di chi sa e di chi quindi può parlare e governare.

Questa sorta di chilo di boria che fa da contorno ad una pseudo-sinistra accademico-cattedratica che scambia la valenza di un titolo di studio con quella di un titolo nobiliare, una sorta di conditio sine qua non senza la quale non si potrebbe nemmeno votare, governare, quasi esprimersi: è un filone ricco di successo e di condivisione, quello dell’accademia imperativa per tutti, che fa un po’ la rima con la sempre latente accusa di populismo, in quell’amore per la scalata al pero che anima moltissimi commentatori dei centri cittadini e dei più preziosi salotti metropolitani, versioni postmoderne di Marie Antoniette per pochi eletti, e pure per poche elezioni.

Questo percorso di appropriazione e storicizzazione del percorso di studi, quasi che una laurea od un master fossero l’unico traguardo raggiungibile ed immaginabile nella vita, il crisma sacrale col quale definirsi degni di pasteggiare al banchetto del progresso e dell’intelligenza, la divinizzazione del percorso di studi che coincide, spesso, con la totale mancanza di profondità analitica di chi la propugna sono tutti elementi rintracciabili in questa ode al titolo accademico, di cui non sentivamo proprio il bisogno.

Ma vogliamo dirlo che questa corsa al titolo di studio è una boiata pazzesca? Lo vogliamo dire che un titolo di studio universitario non certifica assolutamente nulla, né il valore di una persona, né la sua capacità amministrativa né la sua intelligenza e, molte volte, nemmeno la sua cultura e la sua professionalità?

Vogliamo fare una analisi complessa di ciò che è oggi l’università, di come funzioni la ricerca, di quale sia il livello di un umanesimo d’accademia che spesso si ferma a qualcosa di già cercato, alla rimasticazione di vecchi miti, di impalcature di pensiero totalmente organiche, di mere assolutizzazioni teoriche utili più alla creazione di sofismi che al vero progresso civile, morale e sociale del paese?

Lo vogliamo dire che con l’istruzione accademica che ci ritroviamo e con l’incredibile stasi culturale vissuta non solo dall’Italia, ma pure dall’Europa, il valore della laurea assume un peso tanto maggiore quanto è maggiore il piattume di chi si trova a parlare di politica in questi termini? Lo vogliamo dire che, spesso, è meglio un buon istituto tecnico o professionale di molte università?

Lo vogliamo dire che l’Italia del boom è diventata grande non grazie alle lauree e alle università ma pure col lavoro di milioni e milioni di persone che a malapena avevano la terza media? Vogliamo parlare dei tanti capitani d’industria e imprenditori capaci che la laurea non l’hanno mai vista ma hanno contribuito a tenere in piedi il paese con il loro lavoro, la loro lungimiranza, la loro concretezza e la loro scaltrezza, che per fortuna non si giudicano e acquisiscono solamente con un titolo di studio?

Lo vogliamo dire, anzi, che spesso dalle università escono pure persone incapaci di valutare la realtà esterna al loro orticello di studi e sapienze, tecnotuttologi che poi, all’atto pratico, non si rivelano nemmeno così sapienti o tecnici come ci volevano far credere? Cose che ho scritto e riscritto pure nel mio libro, e che mi ritrovo a ripensare ogniqualvolta sono esposto a lamentele di qualche ricercatore, professore o via discorrendo per la presenza di qualche politico non laureato, non masterato, non studiato o non imparato.

Per favore, smettiamola con questo vezzo in stile Versailles sulle lauree e sui titoli di studio. Smettiamola con questo feudalesimo del sapere, con questa gara a chi a chi sa di più, a chi colleziona più master, titoli, carte, bolli, bolle e riconoscimenti, ché non se ne può già più. Torniamo alla valutazione delle capacità amministrative, della dimostrazione pratica del proprio sapere e del proprio saper fare, del ragionamento sui dati e sui risultati, più che sulle premesse o su fantomatici prerequisiti decisi da non si sa chi.

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