Ballottaggio in Egitto: vincerà lo scontro o il compromesso?
Il sangue continua a scorrere in Siria, non più solo nello scontro fra forze governative e opposizione ma anche nei centri di popolazione mista fra gli armati del clan alawita al potere e membri di altri gruppi etnico-religiosi. Questo conflitto svia l’interesse dei media per lo scontro – non meno importante anche se meno sanguinoso – che ha luogo in Egitto per il ballottaggio alla presidenza. Questo si terrà il 16 e 17 giugno fra Mohammed Morsi esponente dei Fratelli musulmani e l’ex premier e generale di aviazione Ahmed Shafik per i militari. “No ai candidati del vecchio regime. No ai Fratelli musulmani” proclama il cartello di un baldo giovane che si fa fotografare sulla Piazza Tahrir. E l’illusione di coloro che credono che la rivoluzione araba possa continuare senza tenere in considerazione che i Fratelli musulmani e i militari sono le sole due forze politiche organizzate e dominanti nel paese.
Un anno fa avevano gli stessi avevano elaborato dietro le quinte un accordo per la spartizione del potere, accordo rotto dalla violenta pressione della piazza. Oggi la domanda rilevante è se saranno in grado di rinnovarlo pacificamente o meno dopo le elezioni. Entrambe le forze in gioco hanno perso molto del loro antico prestigio e credibilità. I Fratelli musulmani (che si pretendono moderati ) si trovano bypassati dai musulmani più radicali del partito Nour (luce) che ha quasi vinto un terzo dei seggi nel nuovo parlamento. Shafik è compromesso dalla sua pesante eredità di gerarca del vecchio sistema di Mubarak . Come personaggi sono entrambi scialbi. L’uno gioca sulla religiosità delle masse unita alla capillare organizzazione politico sociale dei Fratelli musulmani; l’altro sulla paura dei ceti cittadini (non solo medi e ricchi) per il dilagare della criminalità e dell’insicurezza personale, per la paralisi dei servizi pubblici, e per il crollo dell’economia.
Sono problemi giganteschi che per il loro semplice contenimento impongono misure impopolari di cui entrambe le parti temono l’assumersi delle responsabilità, anche perché sanno che la rivoluzione ha distrutto il pilastro su cui da millenni poggia il potere in Egitto: il rispetto per l’autorità e la paura delle masse.
Comunque vadano le cose (la logica farebbe pensare al successo di Mursi piuttosto che di Shafik – ma c’è logica nel Medio Oriente? si chiedeva l’orbo generale israeliano Moshé Dayan) i militari dispongono di due carte in più dei Fratelli musulmani, sempre che le sappiano giocare.
La prima è che la nuova costituzione non è stata approvata per cui il ruolo del Capo dello Stato non è ancora definito. La seconda è che se l’emorragia delle riserve monetarie (scesa al livello di 10 miliardi di dollari renderà difficile il credito estero) i soli a disporre di fondi utilizzabili saranno i militari stessi. Non solo perché dispongono di 1,3 miliardi di dollari di aiuti diretti americani a condizione che la pace con Israele non sia rotta, ma perché hanno ammassato fondi durante l’era Mubarak. Usarli per tacitare le frange più affamate della popolazione e per ricostruire le forze di sicurezza interna col minimo spargimento di sangue diventa per loro una questione strategica.