Sono ormai 16 mesi che la rivolta araba batte alle porte del regime di Assad in Siria, senza scalzarlo nonostante il molto sangue versato e la progressiva disgregazione del paese che si è sempre proclamato culla del nazionalismo arabo. Per comprendere la capacità di resistenza del regime dittatoriale di Assad internazionalmente denunciato occorre ricordare alcuni fatti che spiegano perché riesce a restare in sella.

Il primo fatto è che le notizie che provengo dalle parti in confronto non sono credibili: esagerato è il numero delle perdite, esagerati i comunicati di vittoria da ambo le parti, incontrollabile lo stato d’animo della gente coinvolta nella guerra civile.

Il secondo fatto è che un anno dopo la formazione del comitato di guida rivoluzionaria, nessun piano d’azione -incluso quello recentemente proposto a Ginevra dall’ONU- è stato accettato dai rivoluzionari che continuano ad essere divisi tanto sugli scopi della rivoluzione quanto nei loro rapporti interni.

Un terzo fatto è che sinora non ci sono state significative defezioni nel campo governativo: nessun ambasciatore è passato dalla parte dei rivoltosi, pochi generali hanno tradito Assad, le principali unità che difendono il regime – quelle dei servizi di sicurezza e della guardia presidenziale – restano fedeli al regime.

Perché lo fanno tenuto conto delle enormi pressioni internazionali su Assad, dei massacri perpetuati dall’uno o dall’altro campo sulla popolazione civile, degli aiuti militari turchi ai rivoltosi e di quelli finanziari dell’Arabia saudita? La risposta è che la Siria come stato unitario nazionale non è mai esistita. E’ un’idea più che una realtà di cui tutti i governanti si sono riempiti la bocca vendendola ai giornalisti e ai diplomatici che avevano interesse a credici soprattutto in funzione del conflitto fra israeliani e palestinesi (quest’ultimi ritenuti da Damasco come usurpatori di una sovranità propria in quanto “siriani del Sud”).

La Siria è infatti un mosaico di etnie e religioni che teme l’arrivo al potere dell’etnia religiosa mussulmana sunnita maggioritaria (leggi Fratelli musulmani) di cui gli altri gruppi a loro volta temono la supremazia e le vendette.

Tre sono i gruppi che si sentono maggiormente minacciati da una vittoria popolare islamica: i curdi temono un governo islamico alleato a quello turco; i cristiani sanno quali alternative li attendono se il regime di Assad (loro protettore) cadesse: esilio, insicurezza (come in Nigeria, in Egitto, a Gaza ecc); gli alawiti che detengono il potere da 40 anni sanno che sarebbero fisicamente eliminati in caso di vittoria islamica.

Su questo panorama di per sè drammaticamente complicato si innestano gli interessi di tre grandi potenze: l’Iran che sostiene militarmente il regime al potere in quanto rappresenta il doppio ponte strategico con il Libano e con l’organizzazione shiita degli Hezbollah e contro Israele; la Russia che ha in Siria il suo sbocco strategico sul Mediterraneo, con basi navali e, fattore da non dimenticare, 30 mila russi o russe sposate con siriani e residenti locali, ed infine la Cina che ha nell’Iran il suo maggiore fornitore di petrolio.

La Siria non è la Libia. Dispone di un esercito moderno, di aiuti militari russi e iraniani, ha una formidabile struttura missilistica creata contro Israele ma che potrebbe essere usata contro la Turchia e la Nato. Cina e Russia dispongono del diritto di veto al Consiglio di Sicurezza e possono bloccare qualsiasi decisione operativa occidentale. Pensare che Stati Uniti o Europa s’impegnino in una guerra per portare al governo della Siria una rivolta guidata dai Fratelli musulmani sunniti che vedono America, Europa e Democrazia come il fumo negli occhi è da escludere. Se non si troverà il militare del corpo di guardia di Assad – naturalmente alawita – per assassinare il presidente, la situazione in Siria continuerà ad essere quello che è: uno stallo grondante di sangue.

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