Inauguro questo blog riportando lo sfogo di un piccolo imprenditore che ha avviato un’attività commerciale nel 2012 e che a distanza di quasi due anni ha avuto il primo (spiacevole) incontro col Fisco. Per ragioni di riservatezza, il protagonista mi ha chiesto di rimanere anonimo. Ma veniamo al punto.

Il signor X rileva una lavanderia di un piccolo comune del Milanese alla cifra di circa 80mila euro (di cui 22mila di avviamento, il resto per le attrezzature). Un giorno riceve una lettera dell’Agenzia delle Entrate nella quale gli vengono fatti “letteralmente” i conti in tasca, quelli attuali, ma soprattutto quelli futuri. La contestazione del fisco è basata infatti sulla presumibilità, anzi su previsioni e conti presuntivi. In sostanza, siccome per la locazione del locale paga un canone di 18mila euro annui (con un contratto 6+6), l’Agenzia delle entrate ha stabilito che il valore dell’avviamento può essere ricostruito “applicando un parametro moltiplicativo pari a 6 al costo degli affitti passivi relativi all’azienda ceduta”.

Ecco dunque che arriva l’enigmatica operazione matematica: 18.000 per 6 = 108.000 di avviamento calcolato. Contro i 22mila di avviamento dichiarato. Insomma, una differenza di circa 80mila euro. Per il fisco, quell’attività ha una capacità di generare utili cinque volte maggiore di quella pagata realmente dall’imprenditore. Come abbia fatto a prevederlo e su che basi lo abbia previsto, per il commerciante resta un mistero, oltre che un esercizio di stile che non tiene conto della singola realtà e del singolo caso. Come si fa a non perdere la voglia di rischiare e di fare impresa se dopo un anno e mezzo che inizi a lavorare il Fisco va a controllare l’atto di compravendita e ti mette con le spalle al muro?

Morale della favola: sanzione pecuniaria da pagare con relativi interessi e imposte di registro pari a circa 5mila euro, già ridotta del 30%, perché si dà quasi per scontato che il contribuente paghi senza fiatare.

Il signor X si reca all’ufficio del fisco, parla con l’agente che ha in mano la sua pratica, gli porta tutti i giustificativi, fornisce la sua versione, gli spiega che lavora 14 ore al giorno, che ha dei figli da mantenere, che ha fatto numerosi sacrifici per investire su questo lavoro. Ma soprattutto gli dice che lui non ha dichiarato il falso, che lui non è un furbo né un evasore. Glielo dice con le lacrime agli occhi. Alla fine, l’ispettore prende la calcoltrice, batte i tasti, fa un’operazione e la sanzione da 5mila euro passa a 2mila. L’imprenditore non è contento di dover pagare per qualcosa di cui non si sente colpevole. Ma paga e piange con un occhio. Dopo aver pianto con due.

P.S: questa è solo l’ennesima storia di un paese in cui regna l’abominio dell’inversione dell’onere della prova. Tu vieni accusato dal Fisco (sulla base di calcoli astratti e presunti) e sempre tu devi dimostrare di non essere colpevole. È come se un pm ti portasse alla sbarra lasciandoti l’incombenza di dimostrare alla corte la tua innocenza. C’è da indignarsi o no?

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