È la giustizia italiana. È il codice. È la legge. Sì, ma andate a spiegarlo ai genitori delle baby squillo dei Parioli, al figlio di Ermanno Masini – ucciso a picconate dallo schizofrenico Kabobo – o ancora ai familiari delle vittime di mafia. Provate a spiegar loro che l’articolo 438 del Codice di procedura penale contempla l’istituto del rito abbreviato per cui chiunque abbia commesso un reato (di qualunque tipo) può beneficiare di uno sconto di un terzo della pena. D’emblée.

I giudici decidono le pene, le vittime le soffrono. E gli imputati “gongolano”, verrebbe da dire.

Così, Kabobo è stato condannato a 20 anni per tre omicidi, una media di 7 anni per assassinio. Per carità, ora i giuristi muoveranno la critica che il giudizio abbreviato – evitando lo svolgimento del dibattimento – ha lo scopo di snellire il sistema giudiziario, di non ingolfare le aule di tribunale e quant’altro. Epperò, se da qualche tempo a questa parte persino gli stessi magistrati sono arrivati a mettere in discussione la validità del rito abbreviato, qualcosa vorrà dire.

Dal canto suo, la politica, ogni qualvolta il tema si presenta nelle cronache giudiziarie, alza la voce salvo poi far scemare tutto. Proprio in questi giorni, la Commissione giustizia della Camera esaminerà la proposta di legge sull’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con l’ergastolo. Ma c’è da scommettere che finirà tutto a tarallucci e vino.

D’altronde così è accaduto nel 2000, quando un nutrito gruppo di magistrati siciliani si arrogò la pretesa di chiedere l’esclusione dell’abbreviato per i delitti di mafia e per quelli puniti con l’ergastolo. Niente di rivoluzionario, no? Invece Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, dissentì fortemente pur palesando critiche allo stesso istituto: “La corrente rifiuta l’ipotesi di doppio binario in materia processuale con esclusione dei delitti di mafia dall’accesso all’abbreviato. Piuttosto ci si può chiedere se sia stata opportuna o meno la scelta di consentire il rito abbreviato anche per i reati più gravi a chiunque ascritti”.

Nel dicembre dello stesso anno, il presidente della commissione per la riforma del codice penale, Carlo Federico Grosso, in una intervista a Repubblica spiegava: “Ammettere al rito abbreviato, e quindi all’automatica trasformazione dell’ergastolo in reclusione “normale”, chi ha commesso reati gravissimi, significa trasformare la condanna del carcere a vita in una normalissima reclusione. Il che è assurdo. Il condannato può chiedere benefici, con il risultato inaccettabile che un ergastolano può uscire di galera dopo dieci anni o poco più”.

Al netto delle critiche, poco è cambiato. E inalterato è rimasto l’ostracismo nei confronti di qualunque cambiamento di rotta. Nel febbraio 2011, l’Unione delle Camere Penali si scagliò contro il provvedimento licenziato da Montecitorio e trasmesso al Senato che prevedeva l’abolizione del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo: “L’ennesimo provvedimento settoriale, dettato non da un’esigenza di sistemazione coerente del nostro sistema giuridico, ma dall’intento di trasmettere ai cittadini vuoti messaggi sul piano della sicurezza”.

Anche l’Anm si schierò a fianco delle Camere penali. “È incoerente escludere la possibilità dell’abbreviato solo con riferimento all’entità della pena”, spiegò il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli, pur ammettendo l’esistenza di alcune problematiche come questa: “Nell’omicidio premeditato basta la prevalenza delle circostanze attenuanti e il giudizio abbreviato per arrivare a una pena massima di 16 anni, un risultato contro cui si rivolta la coscienza dell’opinione pubblica”. E ogni tanto i detentori del potere potrebbero davvero ascoltarla questa sacrosanta opinione pubblica. Comunque sia, arrivò l’ennesimo stop.

Era il 2011, il primo firmatario del provvedimento era il capogruppo della Lega Nord, Nicola Molteni. Guarda caso, dopo tre anni, la commissione giustizia in questi giorni passerà in esame proprio lo stesso ddl. L’ennesimo segno dell’immobilismo di un paese di stampo gattopardiano.

Nel 2012, Nicola Gratteri pronunciò parole dure contro il rito abbreviato durante un convegno sulle mafie organizzato all’università di Pavia: “Finalmente chiudono i tribunali, ma si può fare di più: togliere il rito abbreviato, che nella criminalità organizzata è un regalo alla mafia. In un processo per mafia, 39 indagati vogliono il rito abbreviato, uno vuole il dibattimento. Prima bisogna fare il rito abbreviato e, poi, a distanza di mesi, anni, devo svolgere tutto il dibattimento, convocando 150 testimoni, tra cui elementi della polizia giudiziaria, nel frattempo trasferiti lontanissimo dal punto iniziale: in sostanza si fanno due processi, con una crescita notevole dei costi. Il rito abbreviato va abolito: voglio un processo che si svolga con dibattito delle parti. La dobbiamo finire di essere ipocriti”. Amen. Intanto l’ipocrisia continua, l’indignazione pure e il rito abbreviato resta.  È così impensabile abolirlo? O quantomeno contemplarlo solo per alcuni delitti “minori”?

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