A un passo dalla Meta
Meta significa traguardo, obiettivo. Nel rugby è sinonimo di goal. E un goal pesantissimo l’ha segnato la Procura di Reggio nel processo Meta, che ha messo alla sbarra il gotha della ‘ndrangheta reggina che ha deciso le sorti della città dopo la fine della guerra di mafia degli anni Novanta.
Il giovane Giuseppe De Stefano, considerato il capo dei capi, si è beccato 27 anni; Pasquale Condello detto il Supremo e latitante fino al 2008 ha avuto 20 anni, come Pasquale Libri, e Giovanni Tegano, uno in più Antonino Imerti, tre in più Domenico Condello e Pasquale Bertuca. «Solo» 17 anni e 9 mesi per Cosimo Alvaro.
Nel 2010, appena prima delle inchieste gemelle Crimine e Infinito, i 42
affiliati alle più importanti cosche ndranghetiste di Reggio e provincia erano finiti alla sbarra per «associazione mafiosa, procurata inosservanza della pena, favoreggiamento personale, turbata libertà degli incanti, trasferimento fraudolento di valori, estorsione ed altri delitti», aggravati dalle modalità mafiose dopo le indagini di pm e carabinieri.
Le pene sono proporzionate allo spessore del cognome, anzi dei cognomi che ai più non dicono nulla ma che in riva allo Stretto tutti conoscono a memoria come la zona della città che ognuno controllava, esattamente come un bambino conosce la formazione dell’Italia campione del mondo e un ottantenne quella del Grande Torino.
Dei 400 anni chiesti dal pm Giuseppe Lombardo ne sono arrivati 262, ma certo per una volta c’è di cui sorridere. Ovviamente l’innocenza fino al terzo grado di giudizio deve valere anche per loro ma la magistratura reggina non nasconde comunque una certa soddisfazione per essere riuscita a superare il primo scoglio giudiziario.
Adesso l’attenzione si sposta su quei famosi Invisibili di cui abbiamo già parlato in questo blog: quella borghesia mafiosa che naviga tra politica, Stato, servizi e professionisti al soldo delle cosche e che trova nel reato di concorso esterno una rappresentazione plastica molto vicina alla realtà. Secondo il pm Lombardo questi presunti boss mafiosi avevano la città in mano ma erano solo pupi in mano a dei pupari ancora tutti (o quasi) da identificare. Sarà vero? Vedremo.
Ecco perché è impossibile cantare vittoria e parlare di colpo decisivo alla ‘ndrangheta, la cui pervasività non conosce confini. Neanche geografici: pare che persino dietro il ferimento a Nizza della ricca ereditiera Hèlene Pastor, 77 anni, si allungherebbe l’0mbra delle cosche, almeno stando a quanto scrive Le Figaro: «Il controspionaggio giudica la mafia calabrese una minaccia seria». La donna, la cui dinastia di origine monegasca è proprietaria di un impero immobiliare il cui valore è tenuto segreto (il fratello Michel era stato presidente del Monaco calcio) è stata presa di mira da un cecchino che la stava aspettando all’uscita del parcheggio di un ospedale L’Archet dove era andata a far visita al figlio ricoverato.
Che a Nizza le cosche abbiano degli interessi nel settore immobiliare in quella terra di confine è risaputo, basti pensare alla latitanza di Natale Rosmini, allora latitante numero due di ‘ndrangheta (il primo era Condello…) condannato all’ergastolo come esecutore dell’omicidio dell’ex presidente delle Ferrovie Ludovico Ligato e fermato in Francia dalla Dia nel 1997. Qualcuno lo aveva coperto, allora come oggi. I settori sono i soliti: le opere pubbliche, gli appalti eccetera. In una terra dove non c’è una legislazione adeguata (come successe in Germania all’indomani della strage di Duisburg) è più facile fare affari, vista l’enorme quantità di contante di cui dispone, che arriva direttamente dal traffico di stupefacenti di cui la ‘ndrangheta è sostanzialmente monopolista.
Soldi che servono ad arrivare dappertutto. Persino al bar davanti a Palazzo Chigi, il caffè Chigi, ieri definitivamente confiscato assieme ad altri beni per 20 milioni di euro alla cosca dei Gallico. Solo ieri su è saputo che la Corte di Cassazione, rigettando l’impugnazione contro la sentenza della Corte d’Appello di Roma, ha definitivamente confermato il sequestro e la confisca dei beni perché frutto di illeciti guadagni. A differenza della Francia, noi le leggi buone a volte le abbiamo. Per esempio quella che prevede la confisca ex articolo 12 sexies della legge 356/92 in cui si dimostri l’esistenza di una «sproporzione» tra il reddito dichiarato dall’imputato o i proventi della sua attività economica e il valore dei beni da confiscare o non risulti una giustificazione credibile circa la loro provenienza. Un piccolo articolo che alle cosche dà molto fastidio. Chissà se, nelle conversazioni tra politici sussurrate tra i banconi del caffè Chigi, qualche colletto bianco non si sia offerto di cancellarlo…