Di solito, nei processi in cui sono coinvolti personaggi calabresi in odore di ’ndrangheta l’associazione mafiosa non si nega a nessuno. E invece no. Siamo a Bologna, in un filone del processo nato nel 2010 dall’inchiesta Black money condotta dalle Fiamme Gialle del Gico di Bologna sulle slot gestite dalla famiglia di Nicola Femia, manipolate ad arte per frodare il fisco anche grazie alla complicità di alcuni esponenti delle forze dell’ordine che anziché controllare le macchinette sussurravano tutto a Femia, e a dei siti per il gioco d’azzardo che bypassavano i controlli dei Monopoli.

Ci furono 29 arresti, 150 indagati, 120 perquisizioni e sequestri per 90 milioni di euro. Qualche giornalista con il fiuto giusto aveva capito tutto, forse anche prima dei magistrati. Giovanni Tizian dell’Espresso, non a caso parte civile al processo, era stato minacciato di morte da Femia e dai suoi sodali («Gli sparo in bocca»). Che Femia sia un personaggio di spessore lo si capì quando venne fuori la storia del 100mila euro consegnati (inutilmente) a due persone (un carabiniere e una dipendente del ministero di Giustizia presso la Cassazione) che con l’aiuto di un intermediario finanziario avrebbero dovuto aggiustare una sentenza in Cassazione per annullare la condanna a 23 anni emessa dalla Corte d’Appello di Catanzaro. L’annullamento (ma con rinvio) fa infuriare Femia che, nel mirino del Gico, scoprirà suo malgrado che quei 100mila euro erano rimasti in tasca ai tre, poi condannati per millantato credito.

Ma per il Gup Andrea Scarpa (oggi sono state pubblicate le motivazioni) Femia è sì un boss «dall’elevatissimo spessore delinquenziale» con «qualificati contatti con soggetti intranei o direttamente collegati con la criminalità organizzata» sebbene l’associazione al centro dell’inchiesta non possa considerarsi di stampo ’ndranghetistico «perché – scrive il Gup – non risulta che la caratura mafiosa di Femia sia stata trasmessa all’intera struttura associativa, giungendo a compenetrarla e caratterizzarla». Da qui la condanna per associazione a delinquere semplice, finalizzata alla frode informatica (mediante manomissione delle schede dei video poker) per gli indagati che hanno scelto il rito abbreviato, mentre in questi giorni è in corso il processo per altre 22 persone, 13 delle quali sono accusate dal pm Francesco Caleca di associazione mafiosa. Un reato che, giova ricordarlo, costa caro in termini di condanne anche se gli imputati non hanno commesso alcun reato «fine» come furto, omicidio eccetera.

Dalle motivazioni della sentenza dell’abbreviato si legge: «Le acquisizioni investigative ottenute non hanno dimostrato che l’organizzazione in sé fosse caratterizzata da un alone permanente di intimidazione diffusa, tale da mantenersi viva anche a prescindere dai singoli atti vessatori e finalizzata alla realizzazione del programma del sodalizio». Se venisse confermata nel suo impianto potrebbe incidere anche su altri processi in corso? È possibile.

Me ne viene in mente uno, quello al presunto boss Giulio Lampada, di cui ho parlato anche nel libro O mia bella Madu’ndrina, in cui si intreccia lo stesso cocktail micidiale: video poker, ndrangheta, servitori infedeli dello Stato. Ma con qualche differenza, ma non troppe.

Esattamente il 6 febbraio dell’anno scorso si è concluso il processo al cosiddetto clan Valle-Lampada, dove sono stati condannati l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, Vincenzo Giuseppe Giglio (accusato di corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato e condannato a 4 anni e 7 mesi, il politico Francesco Morelli dell’allora Pdl, condannato in primo grado a per concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio a 8 anni e 4 mesi e a due anni di libertà vigilata, e l’ex maresciallo della Gdf, Luigi Mongelli, accusato di aver preso mazzette per aver chiuso un occhio nei controlli alle macchinette videopoker e slot machine gestite da Lampada e condannato a 5 anni e 3 mesi. Un altro magistrato, l’ex gip del Tribunale di Palmi Giancarlo Giusti, fu condannato a 4 anni in abbreviato e nei giorni, ma ne parlerò nei prossimi giorni.

Ma il problema, come denunciarono i legali di uno degli imputati, Giulio Lampada, fu «la caccia allo ‘ndranghetista a tutti i costi»: a lui fu inflitta la pena più alta, 16 anni come presunto boss dell’omonima cosca («Che non è mai esistita negli atti», dissero allora gli avvocati Ivano Chiesa e Manlio Morcella) per «colpa» di quella parentela con il boss Francesco Valle, (Lampada ha sposato la figlia) e con il cognato Francesco, entrambi condannati a 24 anni di carcere e alla misura di sicurezza della «casa lavoro» lontano dalla Masseria di Cisliano, bunker alle porte di Milano dove si decidevano affari, estorsioni e usura. Il collegamento tra la famiglie Valle e Lampada e tra l’usura e le slot machine fu immediato, legittimo dal punto di vista investigativo ma forse un po’ claudicante stando alle carte dell’inchiesta e del processo.

Il sostituto procuratore generale di Milano Laura Barbaini ha chiesto la conferma delle condanne di Giglio, Morelli e Lampada e una pena più mite per Mongelli (da 5 anni e 3 mesi a 4 anni di reclusione), i difensori chiedono l’assoluzione in appello perché «non emerge alcuna prova dell’appartenenza a organizzazioni mafiose».

Se nel caso di Femia il suo «spessore criminale» non è stato sufficiente a coinvolgere incensurati in un’azione criminosa ma non mafiosa, perché nel caso di Lampada, che non ha mai preso una pistola in mano e che, leggendo le carte, non ha mai direttamente partecipato alle attività della famiglia Valle (con cui pare ci fosse più di un disaccordo) lo «spessore» del suocero deve coinvolgere anche il genero?

Quando sento parlare (male) del concorso esterno in associazione mafiosa penso che sia un reato che a certi personaggi che gravitano a metà tra lo Stato e i boss (uno su tutti, il commercialista Giovanni Zumbo) calza a perfezione. Ma a volta abusare del reato di associazione nei confronti di persone incensurate (e nel caso del processo Infinito ce n’è più di uno…) in una spiacevole pesca a strascico che mette insieme squali mafiosi e tonni calabresi, più che giustizia a me pare un azzardo. E qualche giudice comincia a metterlo nero su bianco…

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