Quel sogno scissionista delle cosche
La stampa rossa salta sull’inchiesta che ha portato in cella l’ex ministro Claudio Scajola e scatta il fango: «Scajola reclutava i boss», spara Repubblica, attribuendo la titolarità della congettura ai pm. Ma spulciando le carte sulla presunta cupola affaristico-mafiosa che avrebbe voluto garantire all’ex deputato Amedeo Matacena la latitanza dorata in Libano («Macché, faccio il maître», si lamenta su Repubblica l’ex azzurro), questa congettura non c’è. Anzi, accostare ‘ndrangheta e politica in questa vicenda è ancora un azzardo. Il Gip di Reggio Olga Tarzia (ma la Dda farà ricorso al Riesame) non crede né all’aggravante «mafiosa» del sodalizio né a Scajola come «l’interlocutore politico destinato a dialogare con la ‘ndrangheta» mentre Matacena aveva «rapporti stabili tra l’ex armatore e la cosca Rosmini», circostanza che ha fatto scattare la condanna definitiva in Cassazione a cinque anni per concorso esterno in associazione mafiosa. «È un reato usato per colpire Forza Italia, che aveva una forza notevole», dice Matacena, che ricorda l’elezione di Giuseppe Aquila con Forza Italia alla Provincia di Reggio negli anni Novanta: «Vicino ai boss? Peppe lavorava a bordo delle navi di mio padre da quando aveva 14 anni – aggiunge Matacena – suo padre era un poliziotto e per come lo conoscevo io era una persona perbene». Quanto ai rapporti tra Scajola e la moglie Chiara Rizzo, ancora latitante nonostante la promessa di un veloce ritorno in Italia «per chiarire tutto», anche ieri si sono rincorse le voci di una possibile relazione sentimentale tra i due, che avrebbero avuto contatti via Skype e Viber «per evitare eventuali intercettazioni». Secondo i pm l’ex titolare al Viminale le avrebbe «prestato» la scorta per alcune commissioni e – in caso di candidatura alle Europee – avrebbe impegnato una parte dello stipendio per affittare un appartamento a Montecarlo. Veleni a cui Matacena non crede, come Maria Teresa Scajola: «Mio marito è un galantuomo, con una grande testa e un grande cuore». Ma sulla scorta il questore di Imperia Pasquale Zazzaro vuole vederci chiaro: «Ho dato incarico al vicario di eseguire un’ispezione». Gli inquirenti avrebbero anche in mano la prova regina sull’aiuto che Scajola avrebbe dato a Matacena: oltre alla lettera scritta al computer in francese a «mio caro Claudio» firmata pare dall’ex presidente libanese Amin Gemayel (coinvolto nell’inchiesta ma non indagato) con le garanzie sulla latitanza a Dubai ci sarebbe un altro documento scritto a mano da Scajola su carta intestata della Camera dei deputati. Insomma, prove da portare a processo e ipotesi tutte da dimostrare, come in ogni inchiesta. Ma nessuno, prima di ieri, aveva mai azzardato la teoria che dietro la nascita di Forza Italia ci sarebbe la ‘ndrangheta. Cosa che neanche i pm di Reggio Calabria si sono mai sognati neanche lontanamente di ipotizzare. Lo ha detto ieri il pm Giuseppe Lombardo, sbugiardando in tempo reale le deliranti tesi di Repubblica: «Esiste una struttura stabile che si occupa di proteggere i latitanti», dice a Libero il magistrato che ha inchiodato il gotha delle famiglie di ‘ndrangheta e che ora cerca i padrini in quella zona grigia tra politica, massoneria e servizi segreti deviati. Ma, precisa Lombardo, «non si tratta di un soccorso azzurro perché non c’è un colore politico predefinito». La ‘ndrangheta è troppo seria per stare dietro a un solo partito, va dove c’è il potere e, come in Sicilia, è dagli anni ’70 – quando cavalcò i moti di Reggio e i «Boia chi molla» – che coltiva il sogno di una Calabria autonomista, per non dire scissionista, un po’ come vorrebbe la Lega in Padania. Vincenzo Mandalari, presunto boss e organizzatore del summit di ‘ndrangheta del 31 ottobre 2009 al Centro Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano (Milano) condannato a 14 anni in primo grado, al telefono con un ex assessore Sel (poi sospeso) di Bollate diceva: «Destra o sinistra non è importante». Qualcuno lo dica a Repubblica.