Toghe rosse, casacche azzurre e cosche nere. A Reggio Calabria non si fanno mancare niente. Si fa più complessa la vicenda di Claudio Scajola, l’ex ministro dell’Interno accusato di essere al centro di una presunta spectre affaristico-massonica vicina alle cosche pronta a garantire un esilio dorato a Beirut all’ex deputato azzurro ed ex armatore della Caronte Amedeo Matacena, condannato a cinque anni per concorso esterno in associazione mafiosa in Cassazione dopo due assoluzioni nel merito.

L’ex titolare del Viminale forse non sa in che guaio si è cacciato con quelle telefonate abbastanza compromettenti a Chiara Rizzo, consorte dell’ex deputato di Forza Italia oggi latitante a Dubai, per favorirne lo spostamento a Beirut. Perché quella condannaper mafia Matacena non l’ha digerita, com’è ovvio pensare. Ma mai prima di ieri l’uomo accusato di contiguità con la cosca Rosmini aveva alzato così il tiro, riaprendo un cassetto che sembrava morto e sepolto, come buona parte dei protagonisti di allora.

«Mai avuto rapporti o fatto affari con la mafia, è una favola. Chi mi ha colpito ha avuto gratifiche e avanzamenti di carriera», ha detto Matacena all’Ansa via Skype: «Da deputato mi interessai del Palazzo dei veleni di Reggio Calabria (cioè dello scontro alla Procura e al Tribunale reggino, nda), di alcuni magistrati, dei pentiti ricompensati in nero e dei riscatti per sequestri pagati con i soldi dello Stato. Quando la Cassazione ha annullato l’assoluzione – denuncia Matacena – i miei avvocati videro un magistrato a me ben noto nell’ufficio del presidente della Cassazione che mi avrebbe giudicato e che avrebbe annullato la sentenza. Quando poi il processo passò al secondo grado, venne cambiato il giudice con uno di Magistratura democratica che mi ha condannato».

Affondo pesantissimo, come pesantissima è stata la replica della Suprema corte, di una durezza inusitata. «Sono farneticazioni di un uomo disperato, un latitante che si sottrae a una condanna definitiva che poggia su fatti storici accertati e pacifici come i contatti con la cosca Rosmini. Non c’è stato alcun collegio precostituito ed è singolare che questo signore si lamenti del fatto che i suoi legali avrebbero visto un magistrato nell’ufficio del primo presidente. Chi mai dovrebbe esserci in quell’ufficio se non dei magistrati?  Il collegio della Quinta sezione penale, quello che decretò la condanna definitiva il sei giugno 2013, non sapeva nemmeno chi fosse questo Matacena».

Sarà. Sta di fatto che Matacena parla di un magistrato che avrebbe fatto pressioni e soprattutto che Matacena rispolvera la stagione più difficile di Reggio. Negli anni Novanta scoppia una guerra di ’ndrangheta che lascia sull’asfalto centinaia di morti. Reggio è travolta da una Tangentopoli reggina per colpa di una classe politica ingorda che divora i fondi del Decreto Reggio (una valanga di soldi pubblici piovuti dopo i moti degli anni Settanta):  le famiglie vanno alla sbarra nei processi Olimpia che decapitano le cosche ma non le indeboliscono, come dimostrerà la sentenza di primo grado del processo Meta. Anzi, si scoprirà che i vecchi avversari di allora hanno deposto le armi e si sono spartite la città, con la complicità di una buona parte della sedicente borghesia reggina, compiacente se non indolente (che è anche peggio).

La mafia muore, paga dazio e rinasce. La borghesia e la politica si spartiscono la torta dei soldi pubblici. E le toghe? E quella lobby massonica che va a spasso con le ‘ndrine e i servizi segreti dopo l’accordo nato neglii anni Settanta a seguito dei moti di Reggio e dei «Boia chi molla», ispirato dalla gioventù nera e pilotato dalle cosche, come sostengono alcuni pentiti? Il primo a squarciare il velo sui veri pupari che a Reggio fanno il bello e il cattivo tempo anche sulle spalle dei boss si chiama Pietro Marrapodi. Notaio, dc e massone «pentito» viene trovato morto nel 1996 a casa sua.  Un destino avvolto nel mistero, soprattutto perché la sua morte fa comodo ai nemici della città che lui ha denunciato. È stato lui a rivelare al procuratore Agostino Cordova, nel 1992, l’esistenza di questa zona grigia, di questi “Invisibili” cui dà la caccia il pm Giuseppe Lombardo nell’inchiesta Breakfast. Ma la sua unica colpa, forse quella che l’ha fatto uccidere, è la pesantissima accusa di «contiguità con i boss» di alcuni magistrati illustri. La denuncia cade nel vuoto, ma la risposta della magistratura non può che essere severa.

Tutti i capi mafia superstiti vengono condannati nei processi Olimpia, che stanno alla ‘ndrangheta come il Maxiprocesso di Palermo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel calderone di Olimpia c’è anche Matacena, colpevole di aver fatto eleggere Giuseppe Aquila, l’ex mozzo della Caronte affiliato alla cosca Rosmini da un legame di sangue benché sia figlio di un poliziotto, e incastrato da alcuni collaboratori di giustizia considerati attendibili. I rapporti tra l’ex armatore e la famiglia di ‘ndrangheta sarebbero molteplici, stando alle deposizioni dei pentiti diventate sentenza inoppugnabile: ne emerge una figura a tinte fosche, di un Matacena che tratta con capimafia e affiliati di somme di denaro da restituire, pentiti da far ritrattare e altre nefandezze.  Difficile pensare a un complotto delle toghe. Ma nella città in cui 007 deviati, politici, massoni e boss indossano a turno la stessa maschera tutto è possibile.