Ecco cosa rischia chi scrive di ‘ndrangheta
Per capire la complessità del fenomeno ‘ndrangheta e di come in una ventina d’anni la holding criminale calabrese abbia sostanzialmente “conquistato” il Nord basta mettere in fila quello che è successo nelle ultime settimane.
A Reggio l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola è alla sbarra per aver protetto la latitanza dell’ex collega parlamentare Amedeo Matacena, oggi a Dubai, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dalla Cassazione per i suoi rapporti con la cosca Rosmini. In tribunale Scajola ha anche sfiorato la moglie dell’armatore Chiara Rizzo, accusata come Scajola di procurata inosservanza della pena nei confronti del marito – con l’aiuto di Scajola, che di lei si sarebbe invaghito, e soprattutto di aver tentato di schermare il patrimonio familiare. Tra le holding di famiglia ci sarebbero anche alcune società che avrebbero partecipato alla ricostruzione di Reggio Calabria attraverso una serie di lavori assegnati alla Cogem, dal Tapis roulant al palazzo dello Sport, dal lungomare alla ristrutturazione di piazza Orange, dai centoventi alloggi popolari del quartiere di San Brunello alla pista dell’aeroporto, come avrebbe scoperto la Dia di Reggio, che ha smantellato un’intricata schermatura finanziaria che ha fatto saltar fuori il ruolo dell’ex armatore.
Ecco perché assicurarlo alla giustizia per gli inquirenti è diventata una priorità. Una delegazione italiana del ministero della Giustizia tratterà con il governo arabo un accordo in tema di estradizione e cooperazione giudiziaria, come ha rivelato il deputato Pd Davide Mattiello, componente della commissione Antimafia: «Potrebbero volerci anni – spiega l’esponente dem – e intanto che resta ufficialmente latitante chi paga i suoi conti? Immagino che la magistratura sia intervenuta ma è verosimile che qualcosa sia sfuggito alle maglie dei sequestri».
Dalla Calabria alla Liguria lo scenario non cambia: a Genova la Direzione investigativa antimafia ha sequestrato 10 milioni di euro di beni riconducibili a un gruppo imprenditoriale contiguo alla ’ndrangheta impegnato nella realizzazione di appalti pubblici, opere edili e movimento terra anche all’Expo di Milano. Gli indagati sono accusati del delitto di intestazione fittizia di beni, esattamente come lady Matacena. Ovviamente la responsabilità penale degli indagati è tutta da dimostrare, e guai a scrivere il contrario.
Peraltro, quello che sta succedendo in Lombardia è anche complesso da raccontare. C’è, per usare le parole di un importante magistrato antimafia, uno «spaccato di vita criminale che a Milano non si registrava da vent’anni». La Procura milanese ha chiesto il giudizio immediato per 57 persone legate alle cosche reggine scoperte a Milano dai carabinieri del Ros pronte a mettere le mani sul servizio catering per le partite del Milan allo stadio San Siro. E in Piemonte, dopo le 50 condanne in Cassazione per gli imputati in abbreviato per l’inchiesta Minotauro ieri sono arrivate le richieste del Pg per altri 609 anni di carcere ai 63 imputati accusati di ‘ndrangheta in provincia di Torino, dove secondo il magistrato le ‘ndrine sono «meno appariscenti ma più concrete».
Ma il mestiere di raccontare le vicende di ‘ndrangheta è rischioso anche se si scrive una verità scritta dalle carte giudiziarie, come sanno bene i tre colleghi della Gazzetta di Mantova iscritti nel registro degli indagati dalla Procura per «pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale». Raccontare le infiltrazioni della ’ndrangheta nelle istituzioni e nell’economia della Lombardia (l’operazione è quella della Direzione distrettuale antimafia di Brescia) è il nostro dovere anche se la verità è anche scomoda, rischiosa. D’altronde alcuni degli accusati di estorsioni aggravate dal metodo mafioso a Brescia nell’inchiesta «Pesci» che tanti guai ha causato ai colleghi mantovani sono stati scarcerati dal Riesame, visto che per loro il magistrato ha rilevato un «difetto della gravità indiziaria».
Ed è andata peggio al collega calabrese Agostino Pantano, accusato di ricettazione per essere entrato in possesso di informazioni sottoposte a segreto d’ufficio nonostante il gip abbia riconosciuto al giornalista il legittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica politica perché esistevano tutti i presupposti (interesse pubblico, verità della notizia e continenza). Diciamo la verità: a volte certi cronisti sono usati dai pm, ingolositi da indiscrezioni giudiziarie buone per strappare un titolo che altri giornali non hanno. La gogna mediatica fa comodo a tutti, tranne che alla verità. E quando le cose vanno storte, a pagare sono solo i giornalisti. E non va per niente bene…