La farfalla che doveva restare segreta rischia di far saltare in aria le magagne degli 007 deviati e la tresca con i boss. Parliamo del cosiddetto «protocollo Farfalla», un’operazione che a detta dei suoi padrini sarebbe servita per raccogliere informazioni da detenuti in regime di carcere duro nel biennio 2003-2004. A gestire il protocollo è stato il Sisde che però, secondo la relazione del Copasir, la commissione di controllo sull’operato degli 007, ha agito «sconfinando dalla legge sui servizi, interpretata in modo strumentale e arbitrario». Nel tritacarne del Copasir è finito anche il Dap, ilDipartimento per l’amministrazione penitenziaria, che secondo la commissione parlamentare avrebbe svolto un ruolo «non consono alle sue prerogative e fuori dal perimetro assegnato».

Facciamo un po’ d’ordine: a fine 2013 si comincia a parlare di un «protocollo» per cui i servizi segreti erano autorizzati a raccogliere elementi utili dai detenuti al 41/bis tramite altri detenuti, mafiosi disponibili in gran segreto a trescare con i servizi in cambio di denaro. Un ruolo che per certi boss di ‘ndrangheta, e i lettori di questo blog ne sanno qualcosa, sembra cucito addosso.

La notizia che su questo accordo c’è il segreto di Stato salta fuori durante un processo a Roma in cui un ex funzionario del Dap e l’ex direttore del carcere di Sulmona sono accusati di aver girato ad alcuni agenti dei servizi notizie sul pentito di camorra Antonio Cutolo. L’allora ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri non ne sa nulla e davanti al Copasir dice: «Sono disponibile a raccogliere informazioni e fornirle a questa commissione». In pochi mesi salta fuori la verità. Le operazioni del Sisde erano due, Farfalla e Rientro, erano state promosse fino al 2006. Nel luglio scorso il premier Matteo Renzi decide di togliere il segreto di Stato alla faccenda e così il Copasir ha gioco facile nel ricostruire l’intera vicenda.

Nella storiaccia si infilano boss del calibro di Totò Riina, le cui frasi di minaccia al pm del processo Stato-mafia Nino Di Matteo mentre parla con il boss pugliese Alberto Lorusso nel carcere di Opera finiscono persino sui giornali. Scatta l’indagine della magistratura, nel frattempo le audizioni alle commissioni Antimafia e Copasir si succedono. I vertici del Dap escludono l’esistenza di un vero e proprio «protocollo» inteso come documento scritto, almeno fino al 2010 quando viene firmata una sorta di convenzione tra Dap ed Aisi sullo scambio di informazioni sui detenuti che però vieta espressamente agli 007  di infiltrarsi nelle carceri o avere un accesso diretto agli ospiti degli istituti penali.

Dalle oltre tremila pagine acquisite dal Copasir emergono due operazioni distinte: l’operazione Farfalla tra il 23 giugno 2003 ed il 18 agosto 2004 orchestrata dagli allora direttori di Sisde e Dap, Mario Mori e Giovanni Tinebra che ha coinvolto otto detenuti e che secondo il Copasir fallì clamorosamente «per l’infondatezza dei presupposti, per la difficoltà di stabilire un rapporto fiduciario con i carcerati individuati e in particolare per l’impercorribilità di un’operazione caratterizzata da un’attività di contatto intermediata da personale del Dap privo di specifica formazione». Sullo sfondo, sembra di capire, potrebbe esserci la famigerata trattativa Stato-mafia. Di natura diversa l’operazione Rientro tra il 25 novembre 2005 ed il 2 febbraio 2007, che aveva come protagonista il boss Antonio Cutolo, detenuto presso il carcere di Sulmona e disponibile a fornire elementi utili alla cattura di Edoardo Contini, all’epoca latitante di camorra e figura importante nella gerarchia criminale campana. Peccato che tutto saltà per «inaffidabilità della fonte fiduciaria», tanto che lo stesso Cutulo venne denunciato ai carabinieri.

Si scopre che il Dap aveva «una vera e propria struttura parallela di intelligence» che operava per raccogliere informazioni sui detenuti sottoposti al regime di carcere duro, come conferma al Copasir l’allora ministro della Giustizia, Roberto Castelli («A mia totale insaputa una centrale di ascolto del Dap intercettava i mafiosi»). E infine si scopre che un pregiudicato collaborava con i servizi dal luglio 2008 fino all’ottobre del 2013.

Un pasticcio pericoloso, come ha sottolineato l’ex magistrato Felice Casson: «Prima della legge 124 del 2007 i servizi segreti non erano controllati politicamente e per certi aspetti il Dap si riteneva un servizio segreto autonomo, che faceva quello che voleva. Una cosa molto inquietante». Inquietante anche visti i rapporti tra 007 deviati e ‘ndranghetisti – vedi il caso Zumbo a casa dei Pelle – considerato che uno degli otto mafiosi contattati era proprio il calabrese Angelo Antonio Pelle, poi fuggito dal carcere di Rebibbia. I rapporti tra i Pelle e i servizi sono di vecchia data, peraltro. La sensazione è che la storia non finisca qui…

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