Il volto feroce della ‘ndrangheta (che dà fastidio ai boss)
Ho appena finito di leggere I killer della ‘ndrangheta di Klaus Davi e ho avuto i brividi. Mi sono ricordato di quando, da ragazzo, seguivamo le ambulanze in motorino a cercare il prossimo morto ammazzato. Me ne ricordo una dozzina, quattro o cinque me li ricordo in modo vivido, particolare. Quello al Bar Malavenda a Piazza de Nava, per esempio.
Io me la ricordo così. È il 22 aprile del 1988. Una serata come tante. Il tempo è clemente, almeno quello, in una città senza più la grazia di dio. E come ogni sera la piazza si sta riempiendo di ragazzi. Tra loro c’è Luciano Pellicanò. Ha una pistola. E un complice. L’obiettivo è un coetaneo, Giuseppe Cartisano. È al bar, sta gustando l’ultimo caffè quando viene freddato. Pellicanò scappa, ma è sfortunato. Si imbatte in una pattuglia dei carabinieri che ha sentito i colpi, che capisce che Pellicanò e il suo complice sono armati, che intima loro l’alt. E poi fa fuoco. Uno, due spari. Il complice fugge, il destefaniano Pellicanò muore. Per terra, vicino ai cadaveri, trovano cinque pistole. La morte di Cartisano è la vendetta per la morte della sera precedente a Gallico di Carmelo Cannizzaro, 51 anni. Ma i killer hanno il destino segnato. Anche Pellicanò sapeva che presto o tardi gli sarebbe toccata. Perché in famiglia la medesima sorte era toccata a un parente: Antonio, il giovane ucciso con Paolo De Stefano nel maledetto 13 ottobre del 1985. Qualcuno a piazza De Nava si accorge subito dell’eccidio, qualcun altro non ci fa caso, qualcun altro ancora è troppo fatto per capire che cosa sia successo. Il giorno dopo il bar Malavenda è aperto, come se niente fosse. Ma quella piazza non sarà più la stessa.
La cosa pazzesca è che solo qualche mese fa è stato possibile ricostruire chi fosse l’altro killer, quello che è scappato. Era Vincenzino Zappia detto Enzo, di cui Davi si è occupato a lungo, di lui come degli altri killer che hanno scatenato la mattanza. Come Nino Bellocco, classe 1938, chiamato U Pacciu (“il pazzo”) perché era uno che non prendeva mai consigli da nessuno, a cui piaceva usare le lame per sentire il rumore delle ossa che si spezzano. O Luigi Bonaventura, pentito di ‘ndrangheta, educato al catechismo della morte sin da piccolo. O come il carabiniere Donato Giordano, che come Dexter di giorno lavorava per lo Stato, al pomeriggio alle 5 andava a uccidere qualcuno, la sera alle 9 era al bar che beveva con gli amici e la mattina dopo alle 8 era in servizio, alla stazione dei carabinieri. Finché non è stato scoperto.
Oggi che la ‘ndrangheta è la più potente organizzazione criminale al mondo, grazie ai proventi del narcotraffico che valgono 500 miliardi, da riciclare attraverso vorticosi giri di denaro, scatole cinesi e professionisti sparsi in banche, centrali operative e faccendieri. Ma tutto nasce, bisogna ricordarcelo, dalla sanguinosa faida che ha macchiato la mia adolescenza a metà degli anni Ottanta. Una mattanza, Davi ce lo ricorda bene, che ha visto faide sanguinarie tra famiglie di ‘ndrangheta concludersi con una stretta tra due mani sporche del sangue altrui. Ricordare ai boss la loro ferocia senza pari, adesso che non si spara più, è l’ennesimo dispetto alle cosche.
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