La morte del re dei videpoker Gioacchino Campolo, una figura paradigmatica della cosiddetta zona grigia della ‘ndrangheta, non può lasciarmi indifferente. Come ho scritto su Prodotto interno sporco, «la sua sala giochi a Reggio Clabria, l’Orchidea rossa tra la via Marina e il Cordon Bleu, per anni è stato il mio rifugio quando ero ragazzo. Che i suoi videopoker fossero truccati era un segreto di Pulcinella. Erano illegali, e lo sapevano tutti, anche gli sbirri che ogni tanto vedevo giocarsi lo stipendio». Ho anche letto la lettera della figlia Adriana, e comprendo ma non giustifico il suo sfogo.

Nei giorni in cui si parla dei quadri spariti dalla Rai, la mia mente era andata al centinaio di tele d’autore, (da Dalì, a Morandi, da Guttuso a de Chirico) che Campolo aveva regolarmente acquistato come bene rifugio per proteggere le sue ricchezze – almeno questa è stata la tesi dell’accusa a Campolo, confermata i tutti i gradi del dibattimento – e che sono stati affidati dall’Agenzia dei beni confiscati ad Alessandro Calabrò, custode giudiziario che, a fatica, ha ottenuto che venissero esposti al pubblico anziché farli finire in qualche stanza di chissà quale dirigente pubblico. Sono quadri che appartengono a tutti, come quelli della Rai, ed è un peccato che solo pochi reggini abbiano finora avuto il piacere di vederli.

Nei giorni in cui la Reggio imbelle e poco gentile è sommersa dai rifiuti, devastata dal caldo e violentata nella sua intimità dagli squallidi brogli orchestrati alle spalle dei morti, c’è bisogno di un po’ di bellezza per dare speranza e riscatto a un popolo che ne ha viste davvero troppe. A me piace Romeo e Giulietta di Salvator Dalì. Tra Reggio e i reggini c’è un amore maledetto, in cui anziché fingere di morire per vivere si finge di vivere per non morire dentro. È una sensazione che vivo ogni volta che arrivo in città (e non manca molto…) e che mi porto dentro. E che il quadro di Dalì, nella sua bruttissima bellezza, descrive come poche immagini al mondo.

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