La questione morale che agita le toghe calabresi
Che succede in Calabria? Tutto, eppure niente. Il Consiglio regionale non riesce a insediarsi per la faida tra candidati eletti e non eletti (ne scrive oggi Il Fatto quotidiano in edicola) ma il giallo pare si risolva oggi. A Gioia Tauro non si ha notizia di alcuna bonifica dei terreni oggetti dell’inchiesta Mala Pigna che avrebbe rivelato una Terra dei Fuochi in salsa calabra dal sapore di ‘ndrangheta. Ogni giorno che passa un calabrese ignaro e impotente rischia un tumore per l’avidità degli imprenditori del Nord, la complicità delle cosche e l’ignavia di uno Stato che avrebbe dovuto mandare le ruspe a mettere in sicurezza quelle terre appena partiti gli avvisi di garanzia e le manette ai presunti colpevoli. La politica tace, alle prese con le sue baruffe da quattro soldi, la gente muore e la magistratura fa quel che può. Ma anche tra le toghe la pace è solo apparente.
Le scorie del caso di Mimmo Lucano, condannato a Locri a 13 anni e rotti per il pasticcio dietro il modello Riace, tra finti matrimoni, abusi edilizi e soldi pubblici dati a chi non ne aveva diritto, non si sono ancora depositate che già nel Tribunale della costa jonica sono partiti i veleni contro i giudici che hanno emesso la sentenza contro l’ex sindaco, alleato alle Regionali di quel Luigi De Magistris che da pm a qualche collega di Locri aveva simpaticamente rotto le scatole. I sospetti di un regolamento di conti tra toghe dietro il processo è forte, visto il coinvolgimento nella vicenda anche di un importante magistrato locrese di Magistratura democratica, che se l’è cavata con un buffetto.
E involontariamente la conferma arriva da un’altra toga illustre, Ilda Boccassini. Che dopo aver (stra)parlato del suo affaire sessuale con il giudice Giovanni Falcone – tacendo di qualche buco nero nelle indagini sulla morte del giudice antimafia – nel suo libro autobiografico ne ha anche per i magistrati calabresi, colpevoli secondo lei di aver ostacolato in qualche modo le indagini milanesi su Vincenzo Giglio, un importante magistrato considerato dalle sentenze come contiguo alle cosche. Scrive infatti Ilda la rossa:«Giglio godeva di una tale considerazione nel distretto reggino che, dopo l’arresto, la sua fama di giudice preparato e imparziale aveva reso molto difficile il rapporto tra noi e la corporazione, i colleghi calabresi in particolare, quasi che procedendo secondo la legge avessimo violato chissà quale codice interno alla categoria. Prevedendo tali reazioni, avevo formulato un capo di imputazione in cui spiegavo in dettaglio i rapporti di Giglio con il clan mafioso e il mondo politico, riportando i dialoghi, le telefonate, gli incontri e le manovre con cui intendeva ottenere la raccomandazione per la moglie o i fatti che dimostravano il suo interessamento per Giulio Lampada, a sua volta, come il consigliere regionale (Giuseppe Morelli, ndr), in cerca di conferma su eventuali inchieste che lo riguardassero».
Tutti fatti di cui si è indegnamente occupato anche questo blog, ma tant’è. La Boccassini se la prende con Magistratura democratica, la corrente di Giglio e dell’attuale procuratore antimafia Stefano Musolino, che ne è il leader, e ricorda: «La magistratura reggina si era mossa compatta indicendo un’assemblea, e la corrente cui Giglio apparteneva (Md, ndr) aveva diramato un duro comunicato in cui si stigmatizzava l’accaduto. Eppure – scrive ancora l’ex pm milanese – il suo profilo problematico era ben noto a cancellieri, avvocati, magistrati».
Una stoccata viene riservata anche a Nicola Gratteri: «Creava tensione con il suo continuo vantarsi di una conoscenza del fenomeno ‘ndrangheta talmente approfondita e a suo dire unica da ricavarne bizzarramente (poiché era il solo a esserne convinto) un senso di superiorità nei nostri confronti. Un comportamento – sottolinea nel libro La stanza numero 30. Cronache di una vita – che non ci ha mai permesso di legare, dato che a stento ci salutava, ma soprattutto perché ogni giorno di più si rivelava culturalmente e professionalmente molto diverso dalla squadra. A detta di chi lo conosce a fondo, per Gratteri far parte di un pool senza esserne il leader non ha alcun significato». E fin qui sono valutazioni professionali, che meritano il dovuto rispetto. Ma a Ilda la Rossa non basta. «A Catanzaro stato indagato e rimosso dall’incarico per accuse di corruzione il collega Vincenzo Luberto, uno dei vice e braccio destro di Gratteri, addirittura incaricato di coordinare le inchieste anti mafia. Ancora una volta l’Anm locale non ha ritenuto di fronte a un fatto grave di prendere posizione precisa nè ha colto l’occasione di avviare in un territorio martoriato una riflessione sulla categoria». Poi conclude: «Ho imparato a essere realista: e quello che vedo e sento (della Calabria, ndr) continua a non piacermi». Si figuri a noi, cara dottoressa.