Drieu, storia di un’adolescenza
Yukio Mishima scrive le sue Confessioni di una maschera tra i venti e i trent’anni. È il 1949. Anche se non lo ammette è un’autobiografia, e proprio per questo non ha mancato di sollevare polemiche, per ragioni che lasciamo ai professionisti dello scandalo. Parla delle prime incursioni nella vita di un adolescente che vive nella propria persona lo squilibrio del suo tempo. Ché proprio qui sta la grandezza o miseria di una vita: o ripercorre le tappe di una civiltà intera, incarnandone le fratture, esibendone le lacerazioni, oppure è semplicemente poco interessante.
Tre decenni prima, nel 1921, Pierre Drieu La Rochelle ha ventotto anni. Pubblica Stato civile: «Le memorie di un fascista che morì suicida» tuona lo strillo sbattuto in copertina da Longanesi, che lo pubblica in italiano nel 1968. Peccato che di suicidio lì non si parli affatto, come scrive Stenio Solinas nella sua introduzione alla nuova edizione del libro, appena uscita per Bietti. E anche sul «fascismo» di Drieu si potrebbe parlare a lungo, dato che, come titola un ottimo documentario di qualche anno fa, parecchi sono i colori del nero…
Siamo nel 1921, si diceva. Il giovanissimo Drieu ha pubblicato solo due libri: Interrogation, nel 1917 (appena tradotto in italiano da La Finestra), e Fond de cantine, tre anni dopo. Sono due raccolte di poesie. Non si è ancora cimentato nella stesura dei Cani di paglia, non ha ancora denunciato le commedie di Charleroi né misurato la sua Francia. Non è ancora un «socialista fascista», né ha provato ad appuntare il secolo, e il lirismo crepuscolare dei suoi splendidi Diari è lontano, così come lo sono Gilles e Fuoco fatuo. Prima di gettarsi in quei lavori che faranno di lui un autore generazionale, il giovane Drieu ha un piccolo conto da chiudere: quello con la sua adolescenza.
A che età si scrive un’autobiografia? Dipende, si dirà, dalla vita che si è vissuta. Ma anche da quanto, come si diceva prima, questa biografia riproduca lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, facendosi diorama del secolo. Ebbene, Stato civile non è solamente la rassegna di anni fugaci, le prime esperienze a scuola, la scoperta di un mondo, le prime colpe ed espiazioni… È la narrazione della gioventù di un secolo che si sarebbe infranto in due guerre mondiali, giungendo in ritardo al proprio appuntamento con il destino. Un secolo perennemente in ritardo rispetto a se stesso: da qui l’importanza di libri come questo, avanguardie di un’Europa che avrebbe potuto essere ma che non è stata, e che il gesto suicida di Drieu gli impedì di vedere. Un atto di compassione estrema, forse, compiuto dall’autore nei confronti di se stesso.
«Ogni crepuscolo altrove è un’aurora» ha scritto Ernst Jünger. Se Drieu rievoca le proprie esperienze giovanili non è per chiudere la porta sull’infanzia ma per preservarne intatta tutta la freschezza. Basta leggere qualche pagina di Stato civile, autobiografia in assenza di biografia, per rendersene conto: «I bambini non appartengono alla stessa epoca, alla stessa razza, allo stesso continente degli uomini. Vivono in età già passate o ancora da venire… Armati con tutti i loro sensi di una straordinaria capacità di divinazione, parlano con tutto l’universo una lingua mistica che dimenticano presto, e abitano terre vergini». Sono simili ai selvaggi: «Come loro, si lasciano addomesticare, e come loro muoiono se perdono la libertà». Giovanissimo Robinson Crusoe del Ventesimo secolo, Drieu ha orrore degli adulti, che colonizzano l’immaginario con la tirannia del dato di fatto e la maschera del cinismo, affermando la supremazia di un quieto vivere, al riparo dal rischio e dall’avventura. Sono loro i carcerieri di quella mistica dell’infanzia che, nella sua innocente colpevolezza, oltrepassa i domini umani per cogliere verità cosmiche: «Vissi il mistero della solitudine del nostro pianeta tra gli astri, come mai saprei riviverlo con l’artificio dell’intelligenza». Il fanciullo raccontato da Drieu la sa lunga sulla storia del mondo e dell’uomo, e non è per nulla intenzionato a cedere questa consapevolezza. Vuole che la fiamma della sua estate incantata, come l’avrebbe chiamata Ray Bradbury, continui a risplendere: «Nascosto in fondo al giardino col mio cane e il mio fucile conobbi l’angoscia, la base stessa della nostra storia umana; un’angoscia che avrei ritrovato soltanto nella voragine di un obice, sulla terra deserta, sotto un firmamento che crollava».
Si porterà dietro quest’infanzia negli anni a venire, negli incontri e nelle frequentazioni, nelle serate di gala e nelle tempeste d’acciaio, la infonderà nelle sue opere e negli articoli per quelle riviste che gli costeranno la scomunica da parte della cultura ufficiale e l’accesso al panteon della Pléiade solo nel 2012, in un’edizione peraltro parecchio depurata e igienizzata da chi non si stanca di riscrivere il nostro passato. Ma che nulla toglie al valore di libri come questo. Il «maledetto» Drieu ci conosceva molto bene…