«Una mobilitazione eroica che, pur essendo in sé cosa esclusiva del singolo, sia fatto politico – ecco l’unico modo autentico per essere nella politica dalla parte dello spirito». Densissime, queste righe sono tratte dai ricchi quaderni di Roberto Melchionda (1927-2020), parte di uno zibaldone bibliografico non ancora messo in forma, un’imponente mole di manoscritti, bozze di articoli pubblicati, inediti e appunti ancora in cerca di editore, che nel frattempo hanno generato un agile libretto dedicato a Ernst Jünger. Uscito con il titolo Ernst Jünger. La politica dello Spirito nella collana “Minima Letteraria” edita da Bietti, è un corpo a corpo con il Contemplatore Solitario, di cui l’autore attraversa agilmente il pensiero e la biografia intellettuale.

Studioso di intelletti come Julius Evola, Giovanni Gentile ed Ernst Nolte, archeologo delle luci e delle ombre del XX secolo, Melchionda è stato un vero e proprio punto di riferimento della cosiddetta “cultura non conformista”, che ha frequentato per decenni, arcipelago di autori eretici, allergici al “culturalmente corretto” e teorici – appunto – di una politica dello spirito. Arruolatosi appena sedicenne nella Repubblica Sociale Italiana, Melchionda entra nel MSI nell’immediato dopoguerra, divenendo una delle voci più importanti – insieme a uomini del calibro di Fausto Gianfranceschi, Enzo Erra, Giano Accame, Piero Buscaroli, Fabio De Felice, Francesco Petronio, Pino Rauti e Primo Siena – dei cosiddetti “Figli del Sole”, la corrente “evoliana” del Movimento Sociale Italiano, guardata dai piani alti non senza un certo sospetto. Coinvolto nel processo dei FAR, da cui verrà assolto con formula piena, il suo nome comincia a comparire su testate come «Il Nazionale», «Vespri d’Italia», «La Notte», «Il popolo italiano», «Cronaca italiana», «Il Secolo d’Italia» e «Storia Verità». In questa frastagliata galassia si afferma anche come animatore di cenacoli intellettuali e di riviste: se nel 1956 lancia, insieme ad Accame, Cesare Pozzo, Mario Pucci e Carlo Costamagna, la rivista «Tabula Rasa», un decennio dopo fonda con Barna Occhini e Sigfrido Bartolini il quindicinale fiorentino «Totalità», attivo per due soli – ma intensissimi – anni.

Naturale come la sua attenzione si sia rivolta in più occasioni all’opera di Ernst Jünger, poeta nelle tempeste d’acciaio, teorico dell’avventura come stile di vita e della vita come avventura continua. Al futuro Premio Goethe dedica molte pagine, che spaziano dalla “via del bosco” (Waldweg) teorizzata ne Il trattato del ribelle alla riflessione sul nichilismo di Oltre la linea, dialogo a distanza con Martin Heidegger, dall’immaginifico Sulle scogliere di marmo alle riflessioni sul linguaggio, tentativo di esprimere i moti invisibili del reale, le potenze numinose che irradiano dalle cose. Sono pagine pensate in occasioni e momenti diversi, il cui veloce avvicendarsi svela tematiche ricorrenti, come lo “sguardo stereoscopico” teorizzato ne Il cuore avventuroso, potente clavis universalis per indagare la molteplicità degli interessi del Contemplatore Solitario. È uno sguardo cristallino che coglie il reale simultaneamente da più angolature, sulla scorta della lezione goethiana, rilevandone l’unità indivisa, in un’esperienza che lascia parlare le cose attraverso una sinestesia dell’animo. Una “visione trasparente” incapace di scindere la superficie dalla profondità, la luce dai colori, la bellezza dal terrore – una visione binoculare che mette in prospettiva il reale, particolarmente utile quando lo sguardo si stacca dalla natura per sondare gli abissi della storia e la storia come abisso, luogo tragico che ha come attori principali le azioni degli uomini e non la volontà di imperscrutabili divinità. Un mondo come potenza.

A corredo dei quattro saggi antologizzati, oltre a un saggio di Giovanni Sessa, attento studioso dell’opera di Melchionda, Ernst Jünger. La politica dello Spirito comprende alcuni frammenti presenti nel lascito dell’autore, come quello citato in apertura. Sganciandosi dalle necessità argomentative proprie degli scritti organici, qui la penna del filosofo raggiunge inaspettate vette liriche, optando per una rarefazione linguistica che sfiora la chiave di volta spirituale di quell’enigma vivente che fu Jünger. Un esempio?

«Nella sua prosa translucida incontriamo di continuo cose rare e straordinarie, eppure ogni volta dotate di grande concretezza. Non le dimostra, le descrive e in certo modo se ne fa garante come testimone veridico, pur “camuffandole” in “letteratura”, in “arte”: nelle quali, sempre più distintamente con il passare dei decenni, riconobbe il luogo della trasfigurazione spirituale del reale quotidiano, un secondo e più vero reale (la dimensione “estetica” è più forte della dimensione ordinaria dei sensi)».

Né mancano confronti tra l’autore di Der Arbeiter e altri interpreti del pensiero rivoluzionario-conservatore europeo. In particolare, emergono Heidegger e Carl Schmitt, con cui Jünger firmò rispettivamente Oltre la linea e Il nodo di Gordio. Ma figura anche Evola che, oltre ad aver dedicato a L’operaio jüngeriano un ricco volume, uscito per Armando nel 1960, ha costituito uno dei principali interessi di Melchionda, da cui sono nati saggi e introduzioni, articoli e comunicazioni convegnistiche. Un interesse testimoniato da Il volto di Dioniso (Basaia, Roma 1984), di prossima ripubblicazione per L’Arco e la Corte, ma anche il volume La folgore di Apollo, in cui l’editore Cantagalli di Siena ha raccolto nel 2015 tutti gli scritti dedicati da Melchionda al filosofo romano. Sono “incontri pericolosi” – verrebbe da dire, parafrasando il titolo di un celebre racconto jüngeriano –, isole nella corrente che un tempo furono vette inaccessibili, tracce di pietra di continenti sommersi, di un altro Novecento, sondabile solo da penne capaci di essere alla sua altezza. Penne, tra cui il lettore attento non mancherà di riconoscere quella di Roberto Melchionda, filosofo e avventuriero dello spirito.

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