Spesso derubricato nell’aneddotica letteraria, c’è un episodio che spiega la creazione artistica meglio di mille trattazioni accademiche: è ciò che accade a Samuel Taylor Coleridge quando scrive il celeberrimo Kubla Khan, viaggio negli spazi aperti dell’Immaginazione Creatrice. Ecco come sono andate le cose: dopo aver assunto una robusta dose d’oppio e aver letto un libro sul palazzo di Xanadu dell’imperatore mongolo, precipita in un sonno profondo, ottenendo in una visione lucida quello che diventerà uno dei capolavori della poetica ottocentesca. Nel mondo intermedio in cui si trova a fluttuare, i versi scaturiscono insieme alle immagini, senza strappi, e Coleridge di fatto assiste alla composizione interiore del poema. Gli resta una sola cosa da fare, appena desto: trascrivere tutto, prima che la “coscienza di veglia” diradi ogni cosa. Così impugna la penna, sbigottito di fronte alla nitidezza di immagini che, trasfuse nei suoi sogni, fluiscono con altrettanta disinvoltura sulle pagine bianche. Ma… c’è un ma. A un certo punto, mentre è al lavoro, viene interrotto da un visitatore giunto da Porlock, villaggio vicino alla solitaria magione in cui si è ritirato. Coleridge lo riceve, anteponendo le buone maniere alla propria ispirazione. Un disastro: tra i convenevoli, si perde la maggior parte dei duecento-trecento versi che avrebbero dovuto costituire il poema!

Nei due secoli che separano quel sogno lucido dal nostro presente, in molti hanno ricordato queste circostanze, con toni assai diversi. Fernando Pessoa, tanto per fare un esempio, ne rimase sconvolto, concludendo in una delle sue “pagine esoteriche”:

«È così che ci è giunto il Kubla Khan come frammento o frammenti, il principio e la fine di qualcosa di pauroso, d’un altro mondo, raffigurato in termini di mistero che l’immaginazione umana non può concepire, e di cui ignoriamo, con un brivido, quale sarebbe potuta essere la trama».

Ricordo di un Oriente impossibile, sognato e dunque vero, è la traccia di un mondo differente, che si affaccia nel sonno insonne del poeta e – tramite il suo genio creatore – fa irruzione nella letteratura continentale. Non è invece pervenuta ai posteri l’identità del visitatore, trasformato in una sorta di archetipo dello scocciatore che interrompe l’attività creativa, generando un brusco ritorno dalle atmosfere rarefatte dell’immaginazione a un aldiquà ben più prosaico. Maledetto uomo di Porlock! Se non fosse stato per lui, probabilmente ora avremmo quella Memorable Fancy (come le chiamava William Blake, un altro che di visioni ne sapeva qualcosa) in forma integrale. Tuttavia, non bisogna essere nemmeno troppo ingenui, ignorando l’eloquenza metaforica contenuta nelle parole del Maestro del Romanticismo inglese. Pessoa non lo era affatto, e fece di questo tipo umano una resistenza interiore che limita ma, al tempo stesso, è la condizione dell’arte in quanto tale:

«A tutti noi, anche se nessuno viene a trovarci, si presenta dal nostro intimo “l’Uomo di Porlock”, il seccatore inatteso. Tutto quanto veramente pensiamo o sentiamo, tutto quanto veramente siamo subisce […] l’interruzione fatale di quel visitatore che siamo noi, di quella personalità estranea che ciascuno di noi ha in sé, più reale, nella vita, di noi stessi».

Bisogna imparare a farci i conti, insomma: ci ha provato anche Jorge Luis Borges ne Il sogno di Coleridge, contenuto in Altre inquisizioni. Qui il Bibliotecario di Buenos Aires stila un atlante onirico delle visioni ricevute dal mundus imaginalis (tra poco scopriremo di che si tratta), come quella di Tartini, che ottenne dal Diavolo in persona il suo celebre Trillo, o di Robert Louis Stevenson, che sempre dai sogni trasse un paio di romanzi. È una catena di visioni ricevute da chissà dove e solo in seguito trasformate in scritti. Quella di Coleridge non sfugge alla norma: il sogno risale al 1797, ma Kubla Kahn esce nel 1816, mentre un ventennio dopo, ricorda Borges, viene pubblicato a Parigi il Jāmi al-tawārīkh di Rashid-al-Din Hamadani (XIV sec.), dove si legge: «Ad est di Shang-tu, Kublai Khan eresse un palazzo, secondo un piano che aveva visto in un sogno e che serbava nella memoria». Un palazzo sognato e poi costruito ispira dunque un altro sogno, a distanza di secoli, anello di una storia parallela a quella visibile, una storia notturna, trasmessa di poeta in poeta, di sognatore in sognatore… E se l’anima dell’imperatore fosse entrata in quella di Coleridge, invitandolo a costruire un edificio di parole e non più di marmo? E se il sogno fosse stato lo stesso? Ex post facto, del palazzo restano le rovine, del poema una manciata di versi. Il primo è stato falcidiato dalla storia; il secondo, da uno scocciatore giunto da Porlock. Ma il sogno è passato, ha attraversato i secoli, e magari un giorno qualcuno tornerà a sognarlo, in forme ancora diverse:

«Forse un archetipo non ancora rivelato agli uomini, un oggetto eterno, sta entrando gradatamente nel mondo; la sua prima manifestazione fu il palazzo; la seconda il poema. Chi li avesse paragonati avrebbe visto ch’erano essenzialmente uguali».

Ugualmente distrutti, ugualmente risorti, ed è proprio questo il punto – l’enigma di Porlock, per così dire. Lo scrive sempre Borges in un altro saggio delle Altre inquisizioni, intitolato La muraglia e i libri: «La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scolpiti dal tempo, certi crepuscoli e certi luoghi vogliono dirci qualcosa, o qualcosa dissero che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa; quest’imminenza di una rivelazione che non si produce è forse il fatto estetico». Una rivelazione solo annunciata… È l’idea che l’opera d’arte sia il prodotto di un’esperienza estetica/estatica lasciata “a metà”. Il genio creatore si libra in un mondo diverso, dopodiché fa ritorno al nostro, portando con sé qualche traccia di ciò che ha visto, mettendo nero su bianco solo il residuo di quell’esperienza, lasciando la pienezza dove l’ha trovata. Ebbene, se volete, il senso dell’arte è il mistero del ritorno – di questo ritorno.

Parole del genere sottraggono l’arte agli arzigogoli della psicanalisi – che ama spiegazioni ben più “terrestri” (il primo biografo di Coleridge, tornando al nostro esempio, ridusse l’episodio citato a «poco più di una curiosità psicologica»), arruolando tutto un esercito di complessi, traumi e rimozioni – e aprono l’artista verso l’alto, verso la profonda realtà del sacro. Il punto, però, è sempre lo stesso: affinché l’opera nasca deve giungere, prima o poi, un uomo da Porlock, per permettere alla perfezione vissuta di diventare una perfezione raccontata. È solo la presenza di figure analoghe a concludere un viaggio compiuto in luoghi che non appartengono a questo mondo – o che, almeno, in esso non si esauriscono. A questo punto, possiamo essere certi di trovarci di fronte a cittadini onorari del mundus imaginalis.

È proprio questo l’approccio adottato da Claudia Giordani e Luigi Zumbo in un loro recente libro dedicato a John Ronald Reuel Tolkien, il filologo più famoso del mondo scomparso mezzo secolo fa. Edito dalla casa editrice Freccia d’Oro, J.R.R. Tolkien e il Mondo di Mezzo ha un sottotitolo che si riannoda a quanto detto sinora: Sulle orme di un viaggio incompiuto, dove il viaggio in questione è quello della scrittura più che dell’immaginazione. È un insieme di saggi legati da un filo invisibile, ossia il rapporto tra l’edito e l’inedito, tra ciò che il professore di Oxford ha pubblicato in vita (Il Signore degli Anelli, Lo Hobbit e pochissimo altro) e quanto è uscito post mortem, vale a dire la stragrande maggioranza della sua opera, presente in forma manoscritta nel suo lascito ma mai data alle stampe. Per quale motivo questa singolare sproporzione?

L’ipotesi è molto interessante: è come se Tolkien avesse attinto a una mole impressionante di materiali poi impossibili da fissare su carta, nel corso di esperienze reali difficili da racchiudere in una cornice narrativa. Meta di queste ricognizioni sarebbe stato il mundus imaginalis descritto dall’orientalista Henry Corbin, realtà intermedia tra quella terrestre e quella intelligibile in senso puro. Una dimensione cui si giunge attraverso l’uso dell’Immaginazione Attiva, facoltà che consente di sperimentare in modo immediato fenomeni ignoti a chi preferisce rimanere con i piedi per terra. Naturalmente, non è un caso che lo stesso Corbin, leggendo la trilogia tolkieniana alla luce di questi princìpi, ne sia rimasto folgorato, vedendovi addirittura una reincarnazione della Cerca del Graal raccontata da Wolfram von Eschenbach nel suo Parzival!

Ebbene, l’incontro con questo mondo avrebbe prodotto una miriade di manoscritti, pochissimi dei quali giunti a un livello soddisfacente per essere pubblicati. Ed è proprio a partire da quest’oceano di inediti che Claudia Giordani e Luigi Zumbo si mettono sulle tracce di un’esperienza vissuta:

«Interrogata liberamente, l’esperienza immaginale fa emergere significati che non sono comprensibili a Tolkien o, peggio, sono del tutto incompatibili con i dogmi dell’ortodossia cattolica cui questi è legato. Va quindi silenziata, chiusa in un cassetto e se del caso, come poi è avvenuto, rielaborata secondo canoni meno compromettenti».

Usando come chiave di volta l’idea che il Mondo Secondario tanto amato da Tolkien sia stato descritto dall’interno, per così dire, gli autori non hanno paura di accedere ai livelli più profondi del Legendarium: la lettura di Jung, la presenza di tematiche gnostiche, l’irruzione di un’Altra Realtà e tracce molto potenti dell’Inconscio Collettivo. Naturalmente procedono con molta cautela, cabotando la letteratura secondaria sul filologo oxoniense ed evitando i voli pindarici che caratterizzano il dilettantismo di certa critica. Un passo per volta, sempre puntellato da una citazione o da un commento, per giungere al nucleo del «combattimento durato vent’anni con il regno dell’immaginale» di cui ha parlato lo studioso di gnosticismo Lance Owens, che fa di Tolkien un argonauta del fantastico più che un semplice scrittore. Un cartografo del mundus imaginalis, che ha mostrato di credere nella concretezza della propria fantasia con toni talmente ispirati che illustri studiosi della sua opera come Verlyn Flieger e Douglas A. Anderson hanno supposto un incontro diretto con i fenomeni narrati.

Sono molti i passaggi significativi in questo senso. Ne ricordiamo uno, fra quelli citati nel volumetto, tratto da una versione inedita di On Fairy-Stories, i cui toni sono incredibili. Tolkien, chiedendosi se gli esseri e i regni da lui inventati siano astratti, evoca

«l’idea che il mondo ordinario, tangibile, visibile, udibile, sia solo un’apparenza. Dietro questo c’è un serbatoio di energia che è manifestato in tali forme. Se noi potessimo realizzare un pozzo in questo serbatoio, attingeremmo ad un’energia che potrebbe non solo cambiare le forme visibili di cose già esistenti, ma farebbe zampillare con illimitata ricchezza forme di cose mai conosciute prima – potenziali ma irrealizzate».

Una dimensione ben tangibile, insomma, una visionarietà tanto concreta quanto quella di Coleridge, per tornare al punto di partenza. Una fantasia reale, come ha notato la già citata Verlyn Flieger nel suo saggio But What Did He Really Mean? (2004), scritto strategicamente nel 2004, dopo il suo pensionamento: meglio non parlare di certe cose nelle università – sono piene di “uomini di Porlock”.

Quella attuata da Tolkien dietro alla sua complessa operazione mitopoietica è, in fin dei conti, una “magia della parola”, come emerge con eloquenza dalle righe appena citate. Se per chi bazzica la critica letteraria classica si tratta di una brillante metafora tra le altre, per chi frequenta il mundus imaginalis la locuzione assume all’improvviso una concretezza abissale – e molte soprese potrebbero giungere da un confronto delle testimonianze ricordate con le opere di Gaston Bachelard e del suo brillante allievo, il Gilbert Durand de Le strutture antropologiche dell’immaginario, manifesto dell’archetipologia.

Poi, però, viene il silenzio. Al viaggio compiuto con l’immaginazione non segue quello della scrittura. La penna si inceppa, i manoscritti restano in cassetti che verranno aperti solo dopo la morte dell’autore. «Viene un momento per uno scrittore o un artista in cui l’invenzione e la “visione” cessano, e può solamente riflettere su ciò che ha visto ed imparato» scriverà Tolkien. Tempus tacendi. Ma solo fino a un certo punto. Se l’artefice de Il Signore degli Anelli è stato – come ogni vero artista, secondo la citata visione di Pessoa e Borges – l’uomo di Porlock di sé stesso, da ciò sono derivate molte delle opere per cui è tuttora ricordato, la cui fama non si estingue con il passare delle generazioni. Nonostante tutto, il viaggio che ha intrapreso è insomma continuato, nel tentativo di proporre un senso a un mondo che del naufragio del senso ha fatto la propria madrelingua, e le sue parole appena citate ricordano quelle di un altro adepto della “magia della parola”, René Daumal, che negli appunti per il suo incompiuto Il monte analogo (sottotitolo: Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche) ha scritto: «Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere… A che pro allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. […] Si sale, si vede. Si discende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto. Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere». Un altro concittadino del mundus imaginalis, ovviamente.

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