Philip K. Dick, Emmanuel Carrère: fantascienza e metafisica
«Ci sono due agenti dell’FBI che interrogano il vicino di casa di un individuo sospetto. Il vicino dice che l’indagato ascolta spesso sinfonie. Ma davvero… lo interrompono. E, sentiamo, in quale lingua?» I due agenti guardano Philip K. Dick. Non l’hanno capita. Il primo borbotta: «Non erano di sicuro del nostro reparto», il secondo gli entra in casa. Phil aveva letto la barzelletta sul «New Yorker», e credeva che raccontandola avrebbe allentato la tensione. Flop totale, naturalmente. Erano gli anni della caccia alle streghe, e la (prima) moglie di Phil militava nella sezione studentesca del Partito socialista. Erano venuti a farle una visitina. «Lei s’interessa di politica?» Lo scrittore risponde di no, non gli importano le cause dei lavoratori. In quegli anni ha scoperto la differenza tra idios kosmos e koinos kosmos. Il primo è l’idea che ognuno di noi ha dell’universo, il secondo invece è l’universo oggettivo. Queste parole l’hanno scosso profondamente: dove inizia l’immaginazione umana e finisce il mondo in sé? Tutta la sua produzione letteraria sarà una variazione su questo tema. Che gli frega di migliorare della società? Quel che ha scoperto è molto più essenziale dei rapporti di produzione.
In italiano ci sono due biografie di Philip K. Dick. La prima è Divine invasioni, di Lawrence Sutin: dottissima, piena di riferimenti e dati, minuziosamente archeologica. Ce n’è un altra, recentemente riproposta da Adelphi, dopo anni di latitanza dalle librerie. È Io sono vivo, voi siete morti di Emmanuel Carrère, forse il suo libro più bello, assieme a Limonov. Nel raccontarne la vita, lo scrittore francese ha la capacità di diventare un discepolo di Dick, di entrare nelle pieghe della sua immaginazione e delle sue allucinazioni, restituendocene la personalità, in un magistrale affresco. Con un trasporto di cui l’enciclopedico lavoro di Sutin purtroppo è assai carente.
Carrère ripercorre la vita di uno dei geni del Novecento, che nel 1960 scopre l’I Ching da un articolo di Carl Gustav Jung (sua antica passione, assieme a Mircea Eliade) e rimane talmente ossessionato dall’oracolo da utilizzarlo per scrivere molti dei suoi libri, tra cui, ovviamente, La svastica sul Sole. Uno scrittore che, sulla scorta di romanzi come Le porte della percezione di Huxley, utilizza gli stupefacenti per esplorare altre dimensioni e verificare i precetti della teologia tradizionale. Come Timothy Leary, crede che essere religiosi nel XX secolo senza usare l’LSD sia come pensare di studiare i pianeti a occhio nudo. Ma sa anche che sostanze come queste aprono porte da cui possono entrare altre entità. Ne è terrorizzato: leggere Le stimmate di Palmer Eldritch o Un oscuro scrutare per credere.
Molto prima di scoprire Carlos Castaneda, consulta il celebre Bardo Thodol, il libro tibetano dei morti, manuale per preparare l’anima al suo viaggio nello stato intermedio, nelle tenebre interiori post mortem. Sembra che Huxley se lo fosse fatto leggere sul letto di morte – prima di farsi inoculare una dose (l’ultima) di LSD…
Folgorato dalla frase di Borges secondo cui la teologia è una branca della letteratura fantastica, è ossessionato dai robot: Golem e Frankenstein moderni, tenuti a battesimo non da scrittori come Gustav Meyrink o Mary Shelley ma da scienziati come Alan Turing. Non solo sono simili a noi: come le bambole di Hoffman, ci mimano, ripetono i nostri gesti, ostentano le nostre fattezze. I nostri alter ego vogliono essere più umani di noi. È brevissimo il passaggio da Turing a Blade Runner, «trattato di teologia cibernetica», come lo chiama Carrère. Come discriminare uomo e robot? La risposta è terribile…
Quando ci si avvicina ai romanzi di Phil, le categorie di realtà e verità devono essere abbandonate. Un esempio, che lo ha tormentato per tutta la vita: e se le sostanze che chiamiamo allucinogeni fossero in realtà anti-allucinogeni e gli allucinogeni fossero invece quelli che ogni giorno assumiamo? Se potessero favorire un Risveglio? Al di là delle pieghe prese negli anni Sessanta da movimenti che prescrivevano l’uso di droghe, qui è sempre di idios kosmos e koinos kosmos che si parla, lo sforzo di accedere a un altro piano della realtà, a un altro stato dell’essere.
«Io sono vivo, voi siete morti» dice a un certo punto Runciter, protagonista di Ubik, capolavoro che contiene tutto il miglior Dick. Lo dice ai suoi amici, che lo credevano in coma. Tutto si rovescia: sono loro a essere precipitati in uno stato di pre-morte, da cui devono uscire. Nel regno del demiurgo e dell’entropia in cui sono intrappolati, giunge il messaggio del loro amico: «Io sono vivo, voi siete morti». È l’idea che lo stato in cui ci troviamo sia in realtà sonnambolico e incosciente, e che sia necessario giungere a un Risveglio. Qui risiede forse la ragione della grande popolarità di Dick, che con i suoi romanzi e racconti ricordò a se stesso e ai suoi contemporanei questo bisogno, antico quanto l’uomo. Basta leggere i suoi monumentali diari (alcuni dei quali usciti recentemente in edizione italiana con il titolo di L’Esegesi. 2-3-74), lucidissimi e deliranti a un tempo, per rendersene conto.
Se la nostra esistenza è un disegno, scrive Carrère, il passo successivo è chiedersi chi l’abbia ordito. È una via che conduce alla paranoia, ma anche alla fede. Dick percorse entrambe le strade. La vita è un sogno, scriveva Calderòn: benissimo, ma chi o cosa sogna? Sogniamo o siamo sognati? L’autore di Ubik scelse la narrativa per provare a rispondere, indicandoci una via per uscire dalle tenebre: «Io sono vivo, voi siete morti».