Processi alle idee. I «Fiori del Male» in tribunale
Ci sono biografie che non si limitano a raccontare vite, gesta e opere, ma che aprono veri e propri spiragli su mondi sommersi, resuscitando atmosfere e protagonisti, intrecci e realtà (spesso dotati di parallelismi sorprendenti con il nostro). Ciò dipende, ovviamente, dall’abilità dei biografi, così come dalla “materia prima”.
Per Edizioni Bietti è appena uscita una biografia di Baudelaire firmata da Charles Asselineau, che del poeta fu amico e confidente. La narrazione è dunque in presa diretta e non si limita a una primissima – peraltro brillante – analisi dell’opera di quello che fu uno dei massimi innovatori della lingua francese e della cultura europea, ma ne rievoca avventure e disavventure, amicizie e inimicizie, in un concitato avvicendarsi di nomi e luoghi sottratti all’oblio. Sullo sfondo, i lunghi boulevard parigini che videro il giovane dandy passeggiare senza sosta, vicoli fumosi, bar e locali, librerie e case editrici, Parigi ancora capitale della cultura europea…
Poco dopo la morte di Baudelaire, Asselineau si fa coraggio e ripercorre, a ritroso, la vita dell’amico. Lo fa senza moralismi, vincendo il dolore legato alla scomparsa di un genio, che odiava i compromessi e gli accomodamenti borghesi, alfiere di un’intransigenza che aveva fatto di lui un profeta in terra straniera. Alieno a tutti e a tutto, come il suo albatros. Eppure, al tempo stesso, amico leale e amabile conversatore. Un poeta, soprattutto, che non si limitava a scrivere quel che viveva ma che inabissava la letteratura nella vita e la vita nella letteratura, cantando le luci e le ombre del suo tempo. Senza soluzione di continuità. Nelle pagine di Asselineau, tradotte e curate da Massimo Carloni, assistiamo così alla crescita e sviluppo di uno spirito, i esperimenti letterari, l’infatuazione per Edgar Allan Poe, l’esilio in Belgio – quel Povero Belgio cui avrebbe dedicato alcune tra le sue pagine più intense…
Inevitabile che la penna dell’autore si getti a capofitto nella poetica baudelairiana. Altrettanto logico che affronti I Fiori del Male, indiscusso capolavoro della letteratura moderna. Naturale, infine, che la sua memoria vada all’infame processo che quei versi dovettero subire. È senza esagerazione che lo definiamo infame, perché questo è il solo termine che può descrivere un’azione intentata dalla morale pubblica nei confronti di un’opera artistica. Infame perché tale è voler sottomettere l’estetica alla morale. L’estetica, semmai, la morale la fonda.
Il suo avvocato, anche se in buona fede, commise un piccolo autogol: si limitò infatti a discutere le poesie inquisite (quelle condannate furono in tutto sei, su oltre cento), senza portare la discussione su un piano più elevato. Quel piano che probabilmente avrebbe fatto assolvere l’imputato, senza riserva.
Rievocando il processo, Asselineau, che si trovava in quell’aula di tribunale, scoppia: come trattare un artista alla stregua di un agente della morale, un professorino, un magistrato del pudore? Come inquisire un poeta i cui precedenti sono due trattati di estetica e una splendida traduzione di Poe (che, stando a molti critici, ha addirittura superato l’originale)?
La narrazione di queste vicende giudiziarie è uno dei più begli inni all’autonomia e alla superiorità dell’estetica. Un inno che forse fece accapponare la pelle a quei benpensanti che Baudelaire stesso canzonava. Un piccolo aneddoto, raccontato sempre da Asselineau in Baudelairiana, gustosa raccolta di aneddoti inserita in appendice a questa prima edizione italiana della biografia, può spiegare cosa pensasse Baudelaire della genìa cui appartenevano i suoi futuri inquisitori: quando il poeta incontrava qualcuno per la prima volta, si lanciava in stravaganze e bizzarrie, per vedere quale effetto avrebbero sortito le sue paradossali acrobazie dialettiche. Asselineau la chiamava «prova dello stupore». Era un modo come un altro per épater le bourgeois, sondare il terreno sul quale si muoveva la sua controparte. Una volta superata la prova, cambiava volto: diveniva un interlocutore stimolante, un amico fidato, un prezioso confidente.
Baudelaire assistette a quel processo con sovrana indifferenza. In occasione della terza edizione del libro, fu tentato per un istante di spiegare ai suoi lettori quel che gli era capitato. E compose qualche nota, cui però non diede seguito: «Questo libro resterà su tutta la vostra vita come una macchia, mi prediceva fin dall’inizio uno dei miei amici. In effetti, tutte le mie disavventure gli hanno finora dato ragione. Ma io ho uno di quei caratteri felici che ricavano un godimento dall’odio e si esaltano nel disprezzo. Il mio gusto diabolicamente appassionato per l’imbecillità mi fa trovare piaceri particolari nei travisamenti della calunnia. Casto come la carta, sobrio come l’acqua e portato alla devozione come una comunicanda, inoffensivo come una vittima, non mi dispiacerebbe passare per un vizioso, un ubriaco, un empio e un assassino». Alla fine dovette desistere: perché spiegarsi? Chi aveva orecchie per intendere avrebbe inteso, per gli altri nessuna speranza…
Rileggere oggi queste note e gli atti di quel processo è illuminante, specie in un tempo nel quale le cose non sono poi tanto cambiate, e la mano dell’artista continua a essere carezzata da quella dei moralisti (anche se di colore e tendenze diverse). Eppure, nella sua monumentale ieraticità, Baudelaire si staglia tuttora, come il suo albatros, su questa folla di commentatori, strilloni e scandalisti. A distanza di secoli da quell’infame udienza, ha vinto. Con buona pace dei benpensanti.