Su Jünger, Lovecraft e un’antologia di gatti immaginari
«Il cane dà, il gatto è.» A parlare è Howard Phillips Lovecraft, il cui arcinoto amore per il mondo felino è documentato, oltre che da una gran mole di fotografie e dallo splendido racconto I gatti di Ulthar, dal suo Libro dei gatti, pubblicato qualche anno fa da Il Cerchio. Idee che hanno recentemente ispirato Il libro dei gatti immaginari, corposa antologia data alle stampe dall’editore milanese Jouvence. Non è certo la prima volta che il mondo dei felini s’intreccia con quello letterario. La lista degli scrittori che li venerarono e parlarono di loro è lunghissima e vanta nomi di tutto rispetto: da Baudelaire a Swinburne, da Twain a Neruda, da Céline (che attraversò un’Europa incendiata dalla Seconda Guerra Mondiale in compagnia del suo Bébert) a Borges, che lo descrisse come «il Custode di un ambito sbarrato come un sogno». Quest’antologia vuole in qualche modo raccogliere l’eredità di tutti loro.
D’altra parte, non si può parlare del gatto senza far riferimento al suo opposto dialettico, il cane. La disputa tra gli amanti dei due animali è antichissima e forse durerà per sempre, nota Gianfranco de Turris, curatore del libro, nella sua introduzione. Già, perché tra cane e gatto la differenza non è solo biologica, ma anzitutto ontologica. Sono due modi diversi di intendere la vita, il mondo e l’uomo. L’uno rappresenta l’avere, il possedere e l’apparire, l’altro l’essere. L’apparenza contro l’essenza, insomma.
Nel suo saggio Gatti e cani, pubblicato in appendice all’antologia, Lovecraft era stato chiarissimo: «Il cane evoca emozioni facili e grossolane; il gatto attinge alle fonti più profonde dell’immaginazione e della percezione cosmica della mente umana». Il realismo sta all’uno come l’immaginario all’altro. Il primo è il luogotenente della prosaicità del reale, il secondo il silenzioso Guardiano della Soglia, possessore delle chiavi di accesso a un’altra realtà. Una differenza che secondo Lovecraft si riverbera negli umani: «I cani sono villani e animali preferiti dai villani; i gatti sono gentiluomini e animali preferiti dai gentiluomini». Bellezza, autosufficienza, libertà, senso della meraviglia, distacco e aristocrazia sarebbero prerogative dei felini e di chi li ama, laddove servilismo, dozzinalità, umanità, democratismo e coinvolgimento emotivo apparterrebbero agli altri. HPL continua implacabile: «Un cane è una cosa incompleta. Come l’uomo inferiore, ha bisogno di stimoli emotivi dall’esterno. Il gatto invece è in sé perfetto. Come il filosofo, è un microcosmo e un’entità autosufficiente». Facilissimo comprendere a chi si sentisse più affine l’ideatore del Ciclo di Cthulhu (che una notte, per non svegliare il gatto che gli si era accucciato sulle gambe, rimase per ore immobile sulla sua poltrona, coricandosi solo la mattina dopo, a pezzi): «lo sprezzante, l’invitto, il misterioso, il raffinato, il babilonico, l’impersonale, l’eterno compagno di superiorità e d’arte, il prototipo della bellezza perfetta e il fratello della poesia; il compassato, grave, capace e patrizio gatto».
A distanza di decenni (nel 1969, per la precisione) un altro scrittore, lontano anni luce dal Solitario di Providence, si è occupato di questa differenza. Stiamo parlando di Ernst Jünger, autore del saggio Cane e gatto (pubblicato in appendice al suo Avvicinamenti). I toni sono molto simili: amanti dei cani versus amanti dei gatti. Chi ama servire o essere servito è in genere affascinato dai primi, mentre chi è libero e indipendente predilige i secondi. Se capi di Stato e dittatori amano i cani (che trattano, di fatto, come i loro sudditi), il felino, scrive Jünger, è il compagno ideale dei caratteri contemplativi, di studiosi e scrittori. È altresì innamorato della Storia e delle sue vestigia: durante i suoi numerosi viaggi a Roma, lo scrittore tedesco rimase folgorato dalla presenza di silenziosi felini tra le rovine, intenti forse a meditare sull’antica grandezza dei Fori. A chi sia portato per le arti conviene la compagnia del gatto, il quale «non disturba pensieri, sogni, fantasie. Anzi, con il suo fascino di sfinge, li favorisce». Il cane, invece, ama l’attività e accompagna l’uomo attivo, l’homo faber, il cacciatore (a differenza del gatto, che caccia da solo, di notte) e il pastore, ma anche il viaggiatore e l’esploratore. La presenza del cane assume sempre una valenza sociale, cementifica le comunità, mentre il gatto ama i Grandi Solitari, nemici, come lui, dell’abnegazione servile. È il simbolo, scrive Jünger, «dell’altra parte dell’uomo – quella in cui l’uomo fruisce di un tempo intimo per sviluppare le idee, cogliere la poesia, seguire la fantasia e sognare».
È proprio su questi principi che è strutturata l’antologia di Jouvence, curata da de Turris e illustrata da Dalmazio Frau: venticinque racconti che vanno dal poliziesco all’horror, dal thriller al realista, dal fantascientifico all’onirico, nei quali i gatti sono i veri protagonisti dell’intreccio e spesso i personaggi chiave per lo scioglimento della trama. A conclusione, il saggio di Lovecraft di cui si è detto prima, vero elogio del gatto metafisico e filosofico, da secoli silente compagno del genere umano e muto testimone della libertà dell’immaginazione di fronte alla tirannia della realtà.