Howard Phillips Lovecraft 1937-2017
Sono ormai trascorsi ottant’anni dalla morte di Howard Phillips Lovecraft, il maestro del canone horror contemporaneo scomparso il 15 marzo 1937. Ottant’anni che hanno conosciuto una sua crescente popolarità, che ha pervaso i settori della cultura “alta” e “bassa” (se poi ha ancora senso questa distinzione). Lui, il Solitario di Providence, che in vita aveva visto pochissimi racconti pubblicati, è diventato ideale sceneggiatore di film e maestro letterario, autore di fumetti e ispiratore di giochi di ruolo, nonché protagonista di racconti scritti da altri (valga come esempio Nel nome di HPL, l’antologia curata da Gianfranco de Turris cui hanno partecipato più di venti autori con racconti, saggi e approfondimenti, di prossima pubblicazione per i tipi di Watson Edizioni). Perché questa popolarità?, verrebbe da chiedersi. Forse perché dietro alla sua narrativa c’è qualcosa di più profondo, forse perché HPL non si è limitato a creare storie “di successo” ma è riuscito a fissare su carta gli archetipi dell’Inconscio Collettivo di cui ha parlato Carl Gustav Jung, a farsi interprete della Grande Memoria di William Butler Yeats, che supera le generazioni tramandando sempre gli stessi simboli.
Lovecraft, insomma, ha dato voce agli incubi che popolano i lunghi sonni dell’uomo moderno. E l’ha fatto in modo sistematico, elaborando una sua personalissima filosofia. Parola di S. T. Joshi, il più importante studioso lovecraftiano a livello mondiale, che nel suo fondamentale H. P. Lovecraft: The Decline of the West, purtroppo inedito in italiano, scrive: «La narrativa di Lovecraft è una declinazione del suo pensiero filosofico». Un pensiero che descrive il passaggio «dal dogmatismo, dal positivismo e dall’ottimismo della scienza verso le indeterminatezze della relatività e del modernismo». Nel segreto della sua biblioteca, anche se forse non lo sapeva ancora, un giovane scrittore stava ripetendo il giro di boa di una civiltà intera.
Fritz Leiber l’ha chiamato «Copernico letterario», Jacques Bergier «Edgar Poe cosmico»… HPL è sempre stato affascinato dalle stelle. Da giovane – giovanissimo – durante le sue esplorazioni siderali scoprì quanto è vasto il cosmo e quanto, rispetto ad esso, minuscolo e insignificante è l’essere umano. Decise di scriverci su, addirittura facendo di questo assunto uno dei suoi capisaldi: «Tutti i miei racconti si basano sulla fondamentale premessa che le leggi, gli interessi e le emozioni comuni agli esseri umani non abbiano validità né significato nella vastità del cosmo».
Prima di solcare gli abissi siderali, meglio dimenticarsi dell’umanità, specie per quella sua fastidiosa abitudine di considerarsi il centro del cosmo. Non incontreremo alieni benevoli (magari quelli antropomorfizzati di parecchi film di fantascienza), molto più probabilmente ci imbatteremo in orrori senza nome, esseri talmente al di là della nostra comprensione da risultarci fatale il loro incontro. Yog-Sothoth, Azathoth, Shub-Niggurath… soprannaturali, ultra-euclidei, al di là delle tre dimensioni, mai mostrati ma sempre e solo suggeriti, come avviene in altri capolavori tra cui Il re in giallo di Robert Chambers, che Lovecraft conosceva bene e che qualche anno fa ha ispirato una magnifica stagione di True Detective (la prima, ovviamente).
Mentre l’universo ribolle di una malvagità priva di scopo, l’uomo immagina di poterne interpretare il senso, ma non è che una pia illusione: «Se esistesse veramente un principio organizzatore, un insieme di norme o uno scopo finale, non potremmo mai sperare di comprenderne nemmeno una minima parte, poiché la natura più profonda del cosmo è costituita da un complesso di energia ribollente di cui la mente umana non potrà mai formarsi un’idea nemmeno approssimativa».
Di fronte a questi esseri cosmicamente indifferenti, ammonisce Lovecraft, è meglio non farsi troppe domande… Meglio rimanere ignoranti, vivere in quelle illusioni che garantiscono una certa salvezza dai Demoni dell’Altrove. Le utili finzioni di positivismo, antropocentrismo e progressismo (che Lovecraft sovranamente disprezzava) possono addirittura essere salvifiche. Se si manca di una preparazione adeguata per comprendere, trattenere, e per così dire metabolizzare ciò che sta al di là del Velo di Maya, oltre lo specchio, allora la pazzia o il suicidio sono i soli esiti. È il destino di molti personaggi dei suoi racconti, spesso scienziati ottimisti e baldanzosi la cui ragione viene annebbiata e oscurata da quelle creature ch’essi stessi hanno risvegliato. Le leggi naturali non sono tutto, anzi: «Il vero racconto sovrannaturale deve contenere una maligna e peculiare sospensione o sconfitta di quelle immutabili leggi di Natura che costituiscono la nostra sola difesa contro gli assalti del caos e i demoni dello spazio insondabile». Quando Lovecraft scrive queste righe, sa bene che sta facendo i conti con la scienza, una scienza della quale si era sempre appassionato, d’altra parte.
La sua è una rivoluzione copernicana della letteratura, che cerca di aprirla al nuovo ambiente cosmico in cui l’uomo si è trovato a vivere. Sembra infatti che i nipoti di Copernico siano ancora tolemaici: ecco perché occorrono nuovi miti, che cantino la nuova condizione della modernità, la tragedia di un uomo che ha spalancato gli abissi siderali ma non è stato in grado di esplorarli senza perdere il lume della ragione. Quella lovecraftiana è l’epica di un uomo che ha perso il proprio luogo naturale, ma che deve specchiarsi in questo nuovo cosmo. Per essere contemporaneo di se stesso, vivendo attivamente il proprio tempo.
Un tempo che, detto in tutta franchezza, il Nostro detestava cordialmente. Nelle moltissime lettere che mandava ad amici e corrispondenti, troviamo precisi indizi di quanto doveva ripugnargli il Ventesimo Secolo. Lui, esteta, amante del bello, cultore di un’aristocrazia diversa da quella legata al denaro, esiliato nel saeculus horribilis, il Novecento, nella «rovina del moderno». Qualche stralcio della sua corrispondenza può fare chiarezza. La democrazia? «Un falso idolo, un semplice slogan, un’illusione delle classi inferiori, dei visionari e delle civiltà morenti», che «nasce dalla deificazione del concetto astratto di “giustizia” e dalla volgare moderna devozione alla quantità in opposizione alla qualità. Una volta che la democrazia diverrà il principio guida, non potrà fare altro che danni alla civiltà. […] Democrazia significa decadenza.» Le masse? Insiemi di «rozzi animali». L’uguaglianza? «Una chimera.» La tecnica? «Ci corrode come un cancro. […] Nasce da una mentalità squallida, ristretta, e si nutre del veleno della schiavitù industriale e del lusso materiale.» La civiltà moderna «tramuta in virtù un insieme di valori assolutamente sterili – la velocità, la quantità, il lavoro fine a se stesso, la ricchezza materiale, l’ostentazione, ecc.; disprezza le relazioni che normalmente la memoria instaura con l’ambiente e le tradizioni, promuove l’omologazione». Al mondo moderno preferiva quello classico: «Penso che la cultura antica, con la sua difesa dei valori qualitativi in contrapposizione a quelli quantitativi, rappresenti un bene che va difeso – forse la sola cosa al mondo per cui valga la pena lottare – ma non credo che questa lotta avrà successo».
Ma Lovecraft odiava il presente soprattutto perché era contemporaneo del futuro. E capiva che la letteratura più adeguata a descrivere questo futuro era quella fantastica. Una letteratura non mimetica, che non si limita a rappresentare il reale ma ne indaga il fondo ignoto. Una letteratura che non cerca il fantastico oltre il mondo ma nelle sue viscere, nei suoi scantinati e nei sotterranei del visibile. Una letteratura che narra l’irruzione dell’Altrove nel nostro rassicurante mondo moderno, attraverso le «fenditure della Grande Muraglia» di cui ha parlato René Guénon ne Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, degli anni Cinquanta.
Non è stato di certo il primo: Gustav Meyrink, ne Il Domenicano bianco, descrive una seduta spiritica nella quale viene evocato uno spirito che semina follia tra le masse. È la terribile Testa della Medusa che, come la Gorgone, tutto pietrifica. Arthur Machen, ne Il grande Dio Pan, descrive un esperimento durante il quale irrompe lo spirito dell’antica divinità pagana, lasciando dietro di sé una scia di morti e infestando la Londra dell’Ottocento. Oppure quell’artista incontrato da John Silence, l’investigatore dell’occulto creato da Algernoon Blackwood, il quale, attraverso l’uso di sostanze stupefacenti, consente a oscure entità di altre dimensioni di entrare nella nostra.
Non sono esempi scelti a caso: Machen, Meyrink e Blackwood sono infatti tra le maggiori fonti ispiratrici di Lovecraft, che li cita nel suo saggio Supernatural Horror in Literature (scritto nel 1925 e pubblicato due anni dopo, ma rivisto fino alla fine dei suoi giorni, tanto che l’ultima revisione risale al 1936, un anno prima della sua scomparsa). Sono tra l’altro – ma questo ci porterebbe molto lontano – autori “esoterici” (Machen e Blackwood facevano parte dell’Hermetic Order of the Golden Dawn, Meyrink della Societas Rosicruciana in Anglia), al pari di molti altri beniamini lovecraftiani, tra cui Bram Stoker e William Butler Yeats.
Le fenditure, le porte aperte sull’Ignoto attendono insomma dei poeti, cantori del volto nascosto di una modernità “liquida” che ha rinunciato alle certezze della “solidità” materialista e meccanicista, ma non ne ha trovate altre. Lovecraft, dal canto suo, aveva individuato un modo del tutto personale di resistere ai demoni che infestavano l’Immaginario Collettivo del suo tempo. Non a caso, in una delle sue lettere si definì «uno scrittore horror amante del passato e della tradizione». Che significa? È lui stesso a spiegarcelo: «Questo sfondo di tradizioni su cui vanno misurati gli enti e gli eventi dell’esperienza è l’unica cosa che conferisca loro l’illusione di un significato, un valore, un interesse drammatico in un cosmo che alla radice è tutto privo di scopo». Se il meccanicismo – di cui Lovecraft era un convinto sostenitore – afferma che non vi è scopo nelle cose, nel mondo, nel cosmo, allora l’unico significato che è possibile assegnare alla vita è quello legato alle grandi civiltà: «Per questo – continua HPL – io pratico e predico un conservatorismo estremo nell’arte, nella società e nella politica, come unico modo per sfuggire […] alla disperazione e alla confusione di una lotta senza guida né regole in un caos non celato da veli».
Ecco perché adorava quei luoghi nei quali sopravvivevano le vestigia di civiltà. A New York, che egli conobbe durante il suo sfortunato matrimonio con Sonia Green, oppose la sua Providence. «I am Providence» possono leggere i visitatori che si arrischiano a cercare la tomba di questo Esploratore dell’Ignoto, innamorato e terrorizzato dalle vastità siderali, luogo naturale dell’uomo moderno.