EJ1Delle opere di Ernst Jünger ormai il lettore italiano dispone di parecchie edizioni. Del contemplatore solitario sono stati tradotti pressoché tutti i libri. Con qualche eccezione, tuttavia: a parte scritti di occasione, brani di pubblicistica e saggistica, mancano completamente i diari cui affidò le proprie riflessioni tra il 1965 e il 1996 (due anni prima di spegnersi), pubblicati in tedesco negli anni Novanta con il titolo di Siebzig Verweht (Passati i sessanta). In questa monumentale mole di scritti, autentici zibaldoni di pensieri ed esperienze, carteggi e incontri, possiamo seguire in presa diretta la stesura delle sue opere, nonché l’evoluzione del suo pensiero. Presentiamo qui alcuni dei frammenti del primo volume (in tutto sono cinque), contenente le annotazioni stese tra il 1965 e il 1970. Oltre a offrire preziosi frammenti del pensiero jüngeriano, questa piccola scelta, cui ne seguiranno altre, si muove nell’auspicio che qualche casa editrice si assuma l’onere di tradurli, nonostante la loro mole. Come emerge dalla lettura, gli argomenti trattati qui da Jünger sono molteplici, dall’eclisse del sacro alla (meta)politica, dalle riflessioni sulla morte alla morfologia goethiana, fino a osservazioni su alcuni dei giganti del secolo breve. Il tutto, con uno stile e un piglio narrativo inconfondibili, che hanno fatto di questo grande Inattuale un Premio Goethe, nonché una delle penne migliori del Novecento.

A. S.

Wilflingen, 25 aprile 1965

Nel regno vegetale l’Universo si esprime in modo più puro e trasparente che nel mondo animale e nella storia umana; da qui nasce il valore degli studi di botanica. Le parabole ci conducono sempre verso un giardino: il fico, il granello di senape, il giglio.

È probabile vi siano pianeti lontani popolati solo da piante e sensitivi. I calici dei fiori imitano gli astri, soprattutto il Sole, verso cui si girano. È un gioco di specchi: ci lasciano intuire la presenza di un centro colmo di potenza, che le stelle, nel loro vorticare, riproducono a loro volta. E così l’occhio: «solare»(1).

 

Wilflingen, 29 aprile 1965

Difficile combattere una malattia nelle sue prime fasi. I medici antichi lo sapevano bene: essa si mostra inizialmente attraverso manifestazioni diffuse. Il soffocarle può addirittura nuocere al corpo. Lo stesso vale nel caso di politica e strategia: occorre lasciare che il nemico si mostri, affinché se ne possano discernere natura e intenzioni.

 

Wilflingen, 19 maggio 1965

Il progresso, comunemente inteso, è la quantificazione delle cose e degli esseri umani, la loro riduzione a cifre. È un’arte che comprende, tra le altre cose, lo sfruttamento di certe persone per fini inaspettati. Per esempio, nel settembre del 1937 i direttori dei teatri di Berlino dovettero telefonare a dieci o venti attori, offrendo loro la possibilità di partecipare a un viaggio, tanto breve quanto piacevole, su un treno speciale… Nessun dettaglio ulteriore. Unica condizione: l’abito da sera.

Come si scoprì in seguito, il treno era diretto a Monaco, dove era giunto Mussolini. Gli attori si trovarono, assieme a molte personalità del mondo culturale e ad altre celebrità, alla Casa d’Arte tedesca. Hitler e Mussolini entrarono, fecero rapidamente il giro delle sale del museo e passarono davanti a una serie di braccia alzate, nel saluto fascista.

Poco dopo, Graff chiese a un funzionario del ministero della Propaganda perché diavolo avesse mobilitato un treno speciale pieno di attori e cantanti illustrissime. Un tale penare per pochi minuti… L’altro gli rispose: «E dove altro avrei potuto trovare, in ventiquattro ore, tanti uomini e donne vestiti impeccabilmente?».

 

A bordo, 3-12 agosto 1965

EJ2Visitando i templi, è meglio evitare la tentazione dell’esotismo, così come l’approccio da museo, che oggi è diventato, per diverse ragioni, più facile e allo stesso tempo più difficile di un secolo fa. Nel mondo intero chiese e templi si convertono in attrazioni turistiche, e ciò non accade tanto per la densità dei nugoli di viaggiatori, quanto per tutte quelle considerazioni di storia dell’arte e filosofia della religione che, però, non giungono al cuore del fenomeno. Lo stesso dicasi per i sacerdoti, il cui ufficio viene tramutato in una serie di turni di guardia. Sollevano ancora l’ostensorio, ma la transustanziazione non avviene più. I templi sono luoghi turistici: ormai non vi accade più nulla genuinamente. Lo sguardo è esclusivamente storico. Ecco allora sopraggiungere i puristi: Huysmans denuncia la contraffazione della farina delle ostie e la vendita del vino della comunione. Non sarebbe che una bagatella, se ad accompagnarla ci fosse la fede. Il turismo moderno contribuisce al livellamento. Il pellegrino che oggi prende l’aereo per la Mecca non è molto diverso dal semplice turista; non si tratta più della visita a un luogo sacro. I templi sono cinti da parcheggi, sono loro a scandire la successione delle feste annuali. L’obolo pagato è sempre meno un’offerta e sempre più un biglietto d’ingresso.

Un elemento favorevole è, paradossalmente, il progressivo allontanarsi delle divinità. «Dieu se retire»(2) – la grande luce, la luce del Sole, s’indebolisce, ma il tremolio delle stelle acquisisce maggior chiarezza. Anzi, lo stesso Sole diviene una stella tra le altre. Ciò vale per i santuari e il loro splendore. Nel caso in cui il viaggiatore sia ancora sensibile, molte cose lo possono colpire – soprattutto se giunge da Paesi in cui a dominare, da secoli, è il monoteismo. Se dispone ancora di una riserva d’indistinto, d’incosciente, di integro, allora sarà questa sostanza indifferenziata a raggiungerlo, attraverso templi e uomini. Non è tanto l’incontro con gli dèi a contare, ma ciò che si concentra in loro o dietro di loro. Gli antenati dello scintoismo sono lì, sui dipinti o sulle tavolette; l’aspetto e il nome si fondono: il cammino che spalancano conduce ad ampissime distanze. È solo a quel punto che risulta indifferente il fatto che ci si trovi di fronte a una fotografia, a un’incisione qualsiasi o a un capolavoro. I templi sono portali e accessi.

Le città sacre, in cui diversi culti prosperano gli uni accanto agli altri, ricordano le relazioni di quei viaggiatori antichi che percorrevano Siria ed Egitto. Qui si venerano animali e demoni, là gli antenati, uomini divini o dei, sia tramite immagini sia attraverso astrazioni che conducono all’inesprimibile. Questo Cammino ci porta oltre il portale fino ai Dragoni, fiancheggia i terribili guardiani, si spinge fino al Buddha addormentato, e poi ancora più in là. Il più umile coltivatore di riso vi si riconosce, al pari dell’uomo di cultura: che ciascuno interpreti il mondo a modo proprio.

La tolleranza, naturalmente, è fondamentale nel mondo del politeismo; gli dèi tollerano la presenza di altri dèi al loro fianco. Come nelle molecole organiche, si può accedere al mondo del politeismo da dove si vuole. Ogni paese, ogni città, per quanto lontano possa condurre il vostro viaggio, avrà una propria divinità cui offrire un sacrificio adeguato.

Qui la possessione gode di maggiore stima della missione. Chi conosce gli dèi, chi ne pronuncerà i nomi? L’abbondanza dei sistemi mitici è tanto inesauribile quanto quella della Natura. Un piccolo dio situato in una nicchia veglia sulla curva pericolosa di una strada: l’ho visto sulla salita impervia che conduce a Nikko. Un altro fantastica all’interno di una capanna, al riparo di un fico. Nel suo girone i fiori sono sempre freschi.

Dio e gli dèi. Una pluralità di divinità solari viene trascesa da un dio che illumina ogni cosa sulla Terra. Una mossa di una dialettica inaudita, quella di San Paolo ai Corinzi. Un dio sconosciuto proveniente dal politeismo acquisiva la dignità di Dio Unico. Di certo non sapevano ciò che li avrebbe attesi. Fu un colpo da maestro, che distrusse un’armatura apparentemente tutta d’un pezzo.

 

Gaoxiong, 14 agosto 1965

È in luoghi come questo che avvertiamo, in modo pressante, la sofferenza che si annida in ogni avvenimento storico, e che non si può staccare da esso. Stazioni di frontiera, ai confini della storia e delle sue correnti. L’impronta è ancora delimitata da un contorno netto, ma ciò che è accaduto si perde nell’incerto. La storia è sfiorata da regni che si sottraggono alla sua legge – l’avventura, l’elementare, la febbre e il sogno.

 

A bordo, 17 agosto 1965

La Terra produce, come insegnano i miti, generazioni di uomini e dèi sempre rinnovati. A ciò si oppongono i risultati della paleontologia, che ci consentono di leggere la storia della Terra, pagina dopo pagina. Sarà, ma questa storia è a sua volta limitata, come tutta l’evoluzione. La grande trasformazione richiede il fuoco – l’incendio originario non lascia tracce. Ignoriamo quante volte la materia sia già passata attraverso il crogiolo ultimo, trasformandosi in forza. Non è solamente la storia a finire qui – ma anche la successione delle nascite.

 

Genova, 24 settembre 1965

Per due giorni a Genova. Ritorno a Boccadasse. Il buio è interrotto solo dalle lampade dei pescatori; le onde quasi s’infrangono sui lampioni. Molte città provocano in noi la malinconia di amanti disperati. Sono inesauribili; naturale che, in viaggio verso Civitavecchia, Stendhal avesse scoperto come Genova fosse fatta per lui. «Se passo per introverso e insensibile, è perché sono stato completamente prosciugato da amori disgraziati»: questo scrisse, più o meno.

Henry Furst è venuto qui, da La Spezia; mi porta i pensieri amichevoli di Orsola Nemi(3). Discussione sull’indice del suo “giornale”(4). Ancora una volta mi scopro sensibile alla sua presenza: se un essere umano si mette in secondo piano, se è indifferente a se stesso, non è più la sua umanità ma l’umanità in generale a rivelarsi, senza limiti.

Passeggiata notturna per i quartieri del porto. Nelle arterie infiammate, come via Pré, la legalità è totalmente sospesa – ubriaconi, puttane, protettori, spacciatori, contrabbandieri che offrono sigarette e droghe. La stessa polizia, è chiaro, ha bisogno di queste zone franche. Sono luoghi neutrali, nei quali sopravvivono la natura e la dimensione dell’illegalità.

In città si festeggia la liberazione – il giorno in cui, come dice Henry, «si sono sbarazzati del loro impero». Ne discutiamo: la morale si è sostituita alla politica, la sociologia al diritto. Per il vincitore la morale diviene un’arma, che monopolizza. Da qui l’attitudine umile e servile che spesso ci si attende dal vinto. Chiunque vorrebbe attingere a questo monopolio, persino i tedeschi, nelle cui mani è rimasto un misero due di picche. A questo punto, meglio fissare uno zero assoluto, nella fattispecie in Hitler; divieto di spiegare come sia giunto al potere e come tutti, nel pieno delle loro facoltà, abbiano partecipato a questo gioco. Resta, tuttavia, chi si rifiuta di partecipare a quello che è considerato il miglior affare del secolo. «Henry, io non faccio che attenermi ai fatti» gli dico. «Abbiamo perso una guerra, e tutti i discorsi del mondo non cambieranno niente.»

 

Stoccarda, 17 gennaio 1966

Ancora sul passaggio al bosco(5). Nelle misure che adotta, il Ribelle deve mirare a un’economia di mezzi. Se ammettiamo che il suo agire si svolge secondo le proporzioni di cui parla Ariosto – uno contro mille – allora deve rinunciare a ogni tipo di azione oppure muoversi adattandosi a questi rapporti. Se vuole creare un clima che gli sia favorevole, l’attentato è anzitutto da escludersi, giacché nei fatti non giova che al potente. Hanno più valore manifestazioni anonime, testimonianze di una superiorità nell’ironia. Si trasmettono pian piano, creando un effetto a valanga.

Ma il miglioramento della situazione generale non è che uno dei suoi compiti. È più semplice per lui cambiare aria, oppure creare per sé, in mezzo a un ambiente assurdo, un microclima, una cellula nella quale sia ancora possibile respirare.

Il Ribelle vuole mantenere intatta la propria libertà; è il suo slancio più profondo, un istinto innato. Non può far altro che seguirlo, che parli o taccia, che agisca o no. Ciò non ha nulla a che fare con l’opinione che vedrebbe in lui un difensore della democrazia. Quando si è soli contro mille, si hanno altre risorse rispetto a qualcuna delle parole di cui si ammanta la costituzione. Ecco ciò che il popolo non sa, né vuole sapere: che lo stato di servitù gli è in fondo gradito. Nella nostra epoca non vi è nulla di sacrosanto al di fuori della democrazia e dello stivale del soldato.

Ecco perché i vincitori della Seconda Guerra Mondiale, per dare ai loro ricatti tutti i crismi della moralità, si trovano in imbarazzo, dovendo sostenere due finzioni contraddittorie:

  1. I tedeschi, senza riserva, sono responsabili degli atti e dei crimini commessi dal loro governo, avendolo sostenuto all’unanimità.
  2. Questo governo era tirannico; si è assegnato con la violenza un’apparenza di legittimità, truccando le elezioni e imponendosi contro la volontà del popolo.

A seconda che ci vogliano sfruttare politicamente o diplomaticamente, si servono dell’una o dell’altra versione. Quando fu ritenuto opportuno riarmarci, durante la crisi in Corea, Eisenhower riconobbe pubblicamente che l’onore del soldato tedesco era intatto. Ci si potrebbe domandare se l’infamia non sarebbe risultata più vantaggiosa.

 

Wilflingen, 26 agosto 1966

Al dottor Jean Reboul: «Non mi ero accorto che nello stesso fascicolo di Prove fossero stati pubblicati un mio articolo su Alfred Kubin e un attacco contro Martin Heidegger. La ringrazio per avermelo segnalato. Per quanto mi riguarda, se stimo Martin Heidegger, non è solo per la sua opera, ma per il fatto che si è esposto politicamente quando era molto più consigliabile non farlo. Gli si può forse rimproverare che i poteri politici abbiano deluso la fiducia che aveva risposto in loro? Lei è psicanalista: non c’è bisogno di dirle cosa cela la diffamazione di un essere superiore… In ogni caso, non è possibile soffocare l’esistenza di un pensiero che merita ancora questo nome. È ciò che mi conferma la sua lettera».

 

Wilflingen, 3 marzo 1968

A Hugo Fischer(6): «Mi chiede cosa penso del destino dell’io dopo la morte. Sono ottimista. Ho proposto, a più riprese, l’immagine di una stazione di dogana nella quale la moneta è convertita in oro. Non parlo solo di me e lei, ma anche del panettiere e del sorriso di chi sgranocchia i suoi dolci. Non solo l’individuo viene tradotto in tipo, ma è commutato in moneta dal valore assoluto. Ultimamente ho trovato una metafora ancora migliore. Saprete di sicuro che gli antichi s’immaginavano il cielo come un guscio solido; consideravano le stelle come dei fori da cui passava la luce del cosmo. È così che vedo l’ego, o la persona: come un conduttore di luce. Se questa luce sembra spegnersi, non si tratta che di una fase passeggera e irreale, come nel caso di un’eclissi di luna».

 

Note

  1. Allusione alla teoria dei colori di Goethe, il quale, parafrasando Plotino, si chiese come l’occhio potesse percepire il Sole senza essere già solare.
  2. La celebre espressione «Dio si cela» è di Léon Bloy, da sempre tra le letture preferite di Jünger.
  3. Henry Furst (1893-1967), vecchio amico dello scrittore di Wilflingen, aiutò Leo Longanesi a fondare l’omonima casa editrice. Proprio per i tipi di Longanesi, di Jünger aveva tradotto, nel 1957, Diario 1941-1945, che uscirà con il titolo di Irradiazioni solo nel 1993, per Guanda. Orsola Nemi (1903-1985), traduttrice e scrittrice, era la moglie di Henry Furst, cui rimase accanto, sino alla sua scomparsa.
  4. Il giornale cui Jünger fa riferimento è «Il Borghese», di cui Furst era redattore.
  5. Il riferimento è al Waldgänger, colui che passa al bosco, mettendosi al riparo dal mondo moderno. Come noto, è il protagonista de Il trattato del ribelle, del 1951 (ed. it.: Adelphi, Milano 1990).
  6. Ernst Jünger conobbe il filosofo Hugo Fischer (1897-1975) tramite suo fratello, Friedrich Georg, negli anni Venti. Esperto di Hegel, Marx e Nietzsche ma anche del mistico Jacob Böhme, Jünger lo chiamava scherzosamente Magister, per la sua tendenza ad insegnare e almanaccare. Cfr. Heimo Schwilk, Ernst Jünger, una vita lunga un secolo, Effetà, Cantalupa 2013, p. 320.
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