Contro moralismo e immoralismo
Facile fare la morale, difficile crearne una diceva il vecchio Schopenhauer. In effetti, non si è mai parlato così tanto di etica come da quando è scomparsa dai nostri orizzonti quotidiani. Da un lato abbiamo un diffuso immoralismo rampante, fenomeno endemico proprio di un sistema che ha fondato tutto sul profitto, sacrificando al rendimento e alla prestazione individuale ogni altro valore. Dall’altro, invece, anneghiamo in un buonismo e un perbenismo senza pari. I monumenti della nostra epoca sono il self-made-man e il moralizzatore, la predica e l’anatema spregiudicato, il capitalismo più bieco e il “politicamente corretto”. Tutto costruito “intorno a noi”, al nostro piccolo io, in progetti a breve termine, poco impegnativi, in obbedienza al presentismo assoluto che caratterizza il nostro disgraziato tempo. Predichiamo la solidarietà ma non siamo più solidali a niente – anche perché spesso non ce lo possiamo permettere –, declamiamo la fratellanza in una civiltà che ha ucciso il padre. Si discriminano i discriminatori, si è violenti sui violenti, «si ammette che la morale sia ovunque a condizione che non si opponga mai al desiderio individuale di permissività. Si vuole un mondo più “giusto”, a condizione però che nessuno debba contribuirvi personalmente».
Autore di queste ultime parole è Alain de Benoist, che all’inizio degli anni Novanta aveva dato lacerante testimonianza del paradosso di cui sopra in un saggio pubblicato sulla rivista «Krisis» intitolato Minima moralia, ora uscito in edizione italiana per Bietti, con il sottotitolo Per un’etica delle virtù.
Attualissimo a distanza di due decenni, è un libro “politico” come pochi altri, nel senso vero e proprio del termine, che denuncia un sistema tutto intento a ripetere belle parole su “etica e virtù”, “valori comuni” e “principi condivisi”. Ma non è che apparenza: questi appelli, annota de Benoist, fanno da sfondo a «un’azione politica ormai ridotta alla più piatta gestione degli affari quotidiani». Un gioco che è stato prontamente smascherato dall’elettorato, ovviamente, specie a seguito di quella sfiducia che l’attuale classe dirigente ha fatto di tutto per meritarsi.
Anche perché la moralizzazione della politica (che dovrebbe disporre di un ethos proprio, cioè la ricerca del bene comune) non è esente da rischi. Quando un partito politico – o uno Stato nella sua totalità, come il Secolo Breve ci ha insegnato – si presenta come incarnazione della Virtù, tutto il resto viene squalificato come Male. Diviene impresentabile, intollerabile. Va corretto, emendato, senza esclusione di mezzi. L’Impero del Bene non conosce il dibattito o l’agorà, ma lo stato di polizia. Si precipita in quella tirannia dei valori di cui ha parlato Carl Schmitt in un suo denso e graffiante scritto. Chiosa de Benoist:
«L’irruzione della morale nella politica ha per effetto di legittimare la demonizzazione dell’avversario, che diviene così un’incarnazione del male, vale a dire il nemico assoluto».
Contro cui è possibile utilizzare ogni mezzo, appunto. «La politicizzazione dell’etica», aveva scritto Didier Lefranc, «conduce a trasformare la violenza in strumento della morale. La virtù obbligatoria sfocia nel terrore». Occhio ai moralisti, dunque, c’è il rischio che la loro ambizione sia di natura egemonica, e nulla di più, che non vogliano far altro che legittimare la loro posizione, nonché i loro interessi.
Quale l’alternativa, a questo punto? Ripiegare su un puerile immoralismo? Null’affatto, anche perché è lo stesso moralismo a rivelarsi un succedaneo della morale. Ne rappresenta la sclerotizzazione, la battuta d’arresto. Più “moralizziamo” sulla morale, insomma, più dimostriamo di averne bisogno. Più ci lambicchiamo sulla “coscienza”, più dimostriamo di non averne una.
A rivelarlo è appunto il proliferare di “morali”. Ecco perché Minima moralia è anzitutto una ricognizione sui vari tipi di etica formulati negli ultimi trecento anni. Dall’ingresso nella modernità l’Occidente ha conosciuto morali fondate sull’utile o sulla scienza, sull’evoluzionismo o sul “darwinismo sociale”, comunicazionali o edonistiche. Ognuna vorrebbe parlarci dell’Uomo con la maiuscola, ognuna ha ambizioni universalistiche; ognuna, semplicemente, finisce per rivelarci informazioni su chi l’ha formulata. Informazioni utilissime.
Valga come esempio il cosiddetto utilitarismo, che secoli fa ha fatto breccia nel senso comune, arroccandovisi. Da sempre, ci spiegano i suoi teorici, tutti gli uomini agiscono a seconda dei propri interessi. La somma di questi egoismi produrrebbe – per intervento di una “mano invisibile” (Adam Smith), concetto dal retrogusto teologico – il benessere comune. Vizi privati, pubbliche virtù, insomma. Secondo questo tipo di morale, l’interesse individuale si staglierebbe al di sopra di ogni altra sfera – affettiva come religiosa, politica come in genere intersoggettiva. Ma l’utilitarismo sconta un peccato originale, essendo legato all’ascesa della classe media e al proliferare dei valori borghesi. L’idea di una virtù legata esclusivamente al merito si è storicamente imposta insieme al mercato, divenendo la «legittimazione del modo di vivere dell’homo oeconomicus, facendo apparire la borghesia quale classe imprescindibile e dichiarando la nobiltà come parassitaria e improduttiva». L’utilitarismo rovescia il precetto aristotelico secondo cui è la virtù a permettere di acquisire beni esteriori: sono questi ultimi
«a rivelare il merito, idea che troverà ampio sviluppo nel calvinismo. L’utilitarismo implica dunque una violenta rottura con la tradizione etica precedente, rifiutata in nome dell’ideale della performance individuale. Per la medesima ragione, è associato all’universalismo: l’utile è un criterio che vale per ogni uomo, essendo naturale aspettarsi che si renda utile alla società».
Gli effetti della primazia dell’utile – e dunque di produzione e consumo – sono sotto gli occhi di tutti, e in fin dei conti costituiscono uno dei maggiori ostacoli alla formulazione di una morale condivisa. Impossibile, scrive de Benoist, «avere una morale in una civiltà il cui solo modo d’essere è quello dell’avere, che s’interessa solo alle quantità definite dalla produzione e dalla “crescita”, che fa del denaro il valore supremo, che esalta vincitori e combattenti il cui successo si fonda essenzialmente sull’aggressività, il cinismo e l’ambizione». Una mentalità così «non può che ammutolire di fronte a chi ritiene sia più corretto agire senza scrupoli che fare del bene».
Più che dagli elementi presi in prestito dalla scienza o dalla sociologia, dalla politica o dalla psicologia, queste morali sono accomunate da uno slancio correttivo – gnostico, potremmo dire – secondo cui il mondo deve essere redento, rettificato (il “no” alla vita denunciato da Nietzsche) e indirizzato verso un determinato fine, posto di volta in volta da chi formula la morale. Ma è una finalità che ben presto si rivela fallace. Un dilemma tutto moderno, che rinvia alla necessità di un assoluto, venuto semplicemente meno. Ma come fondare qualcosa se abbiamo rinnegato la necessità di un fondamento al di fuori dell’individuo? Come costringere l’uomo a uscire da sé stesso se dichiariamo che è lui la misura di ogni cosa? Questo il dilemma denunciato in Minima moralia:
«Vogliamo trovare il modo di obbligare l’uomo, senz’altro riferimento che se stesso, a creare doveri usando con parsimonia la verità; gli chiediamo di comportarsi come se ci fosse un assoluto mentre affermiamo con forza che non c’è. Tutti i tentativi moderni di “fondare” la morale s’inscrivono nella ricerca disperata di rimpiazzare Dio con una nozione secolare “funzionalmente” analoga».
Ecco perché l’impresa è votata al fallimento, e al sorgere di ogni morale ne nascono due o tre contrarie. Nella società moderna, che afferma come l’uomo sia al centro di tutto,
«il soggetto, perduta la libertà interiore, è divenuto totalmente straniero a se stesso. È libero di dare il senso che vuole alla propria vita ma è privo dei punti di riferimento che gli consentano di dare spessore a questo senso. Responsabile di ogni cosa, salvo che di sé, in un mondo fattosi ormai silenzioso non gli resta che sognare la “felicità” in un’esistenza priva di estensione».
Essendo venute meno le ascisse e ordinate che ci consentono di fondare una morale, ci ostiniamo a parlarne ossessivamente, non facendo che rimarcare il vuoto valoriale in cui viviamo: «I codici morali fanno la loro comparsa soprattutto presso popoli ormai non morali e gli imperativi categorici sorgono nelle epoche meno morali». In luogo di chiederci su quali obblighi e vincoli fondare un’altra morale, l’ennesima, è forse meglio concentrarsi sul bisogno in sé stesso. Non rivela, in effetti, una mancanza?
Proviamo, suggerisce de Benoist, a tornare ai Greci, non per restaurare i bei tempi che furono, ovviamente, ma per utilizzarli come pietra di paragone. Un confronto potrebbe rivelare parecchie sorprese. Se affrontassimo l’etica greca, ad esempio, potremmo scoprire che «bene e male sono indissociabili dalle nozioni di superiore e inferiore. L’etica consiste in uno sforzo verso l’eccellenza, un oltrepassamento di sé». Un oltrepassamento difficilmente accettabile da parte di una civiltà che ha fatto dell’individuo la chiave di volta del cosmo intero, ma che nondimeno merita di essere ripensato. Secondo l’etica greca, «è un’assurdità pura amare ciò che è basso, inferiore, privo di nobiltà». E la nobiltà consiste proprio in questo uscire da sé, sbilanciandosi verso l’altro, gli altri, il corpo sociale e gli dèi.
Un’idea, ancora una volta, intollerabile al mondo moderno, che della superiorità ha fatto una specie di parolaccia. Per offendere qualcuno, oggi gli si dà del “Signore”, ha scritto Stenio Solinas qualche anno fa. Il Signore desidera altro…? Il Signore è soddisfatto…? E d’altronde, la cosa non deve stupirci: i concetti di superiorità e inferiorità, scrive de Benoist, non possono avere senso «in una società che pone tutti gli esseri alla stessa distanza gli uni dagli altri», nella quale l’educazione e la formazione del carattere sono compitini da sbrigare, affari tecnici e burocratici… Secondo l’etica delle virtù (areteica, in senso greco) proposta in Minima moralia, invece,
«apprendere la morale prende le mosse da cose molto semplici: mantenersi eretti, guardare davanti a sé, mostrare coraggio nelle avversità, praticare la generosità, non considerare prioritario il proprio interesse, possedere la cognizione dello stile».
Sono comportamenti molecolari, squalificati dal minimalismo etico promosso dal liberalismo imperante. Ma sono anche semplici modalità per ricollocarsi entro un ethos condiviso, che parta da noi e a noi ritorni:
«Agire disinteressatamente non significa solo agire a beneficio di terzi, ma anche contraddirsi, imponendosi di non perseguire in alcuna circostanza il proprio interesse. Solitario sulla propria isola, Robinson può obbedire a un’etica: avrà obblighi “morali” solo dopo l’incontro con Venerdì. L’etica, in altri termini, non implica necessariamente l’esistenza altrui, contrariamente a ciò che affermano i teorici dell’utilitarismo, secondo cui si hanno doveri verso gli altri e mai nei confronti di se stessi».
Torniamo a essere leali e fedeli a noi stessi, in un mondo che coltiva l’incoerenza a tutti costi, torniamo a praticare la virtù in un tempo preda di un moralismo bigotto e fuori tempo massimo e un immoralismo straccione e falsamente anticonformista. È forse questo il primo passo per costituire un nuovo ethos comune, nel mondo in cui Dio è morto.