Addio a Nanni Svampa, poeta di una Milano sommersa
A settantanove anni, ieri sera, si è spento a Varese Giovanni Svampa. Per gli amici, per gli ascoltatori, per tutti, semplicemente Nanni. Classe 1938, praticamente fino all’ultimo dei suoi giorni aveva tenuto concerti e spettacoli in teatri e cabaret, scegliendo di cantare la sua Milano – una Milano, a ben vedere, parecchio diversa da quella che la mia generazione conosce e ha conosciuto. Una voce che, assieme a quella di un Gaber, uno Jannacci o un Walter Valdi, ha raccolto un testimone e ha deciso di riaprire le ferite di una città con ironia e sagacia. Con lui, ci si perdoni la retorica, se ne va davvero una parte di Milano. Una parte che la metropoli di oggi pare faccia di tutto per eclissare. Il suo apprendistato alla vita e a quella musica di cui si sarebbe fatto interprete, d’altra parte, era avvenuto nell’(allora) popolare quartiere di Porta Venezia, frequentato da impiegati e operai ammassati nelle famosissime case di ringhiera, oggi riportate alla ribalta dal gusto posticcio del “vintage”. Le case di ringhiera e i canali, i ballatoi e le osterie, le vie buie e gli spazi aperti delle campagne, le mattine pallide e brumose che conosce bene chi nell’alba non vede l’inizio della giornata che verrà ma la maledetta fine della notte appena trascorsa. Qui c’è tutto Svampa, negli uomini e nelle donne, nei padri e nelle madri, gli stessi raccontati – tra gli altri, tra i moltissimi altri – da Pier Paolo Pasolini e Luciano Bianciardi, tutti interpreti di un mondo definitivamente spazzato via dagli anni Sessanta e Settanta, prima del “miracolo economico”, prima che Milano fosse da bere, da vedere, da amare, da sparare…
Allora, come si diceva, era molto diverso. Non c’era la messaggistica istantanea, non c’erano hashtag e smartphone, e la quotidianità non veniva affidata all’italiano ma al dialetto – alla sua crudeltà, e insieme alla sua forza redentrice. Tutto passava da lì, le vite e le morti, i miracoli e le tragedie. Era una lingua che entrava nella carne delle persone e dei quartieri, nel tessuto sociale non ancora smembrato dalla cultura di massa. Quella lingua, Svampa l’aveva portata sul palco dei teatri, insieme a Roberto Brivio, Gianni Magni e Lino Patruno, col gruppo di cabaret «I Gufi», cocktail – pardon, miscela – esplosiva di humor nero, satira socio-politica e comicità. Era il 1964: tre anni prima, mentre faceva il militare, aveva preso a tradurre Brassens. Ma non in italiano, come Fabrizio de André, altro testimone di un mondo scomparso per sempre, bensì in dialetto. Milanese, ovviamente. Così come Milanese. Antologia della canzone lombarda rimane un documento indispensabile per comprendere la cultura di una città che sembra aver fatto di tutto per sotterrare le proprie radici.
Ora, ascoltare Nanni Svampa per un trentenne è un po’ come riaprire, ancora una volta, quelle cicatrici, cauterizzate dal basic english che ha sostituito il dialetto, dalla movida che ha annichilito la comunicazione tra le persone, dalla virtualità che ha distrutto la realtà concreta. Quella stessa realtà, tanto per fare un esempio, che hanno raccontato nei loro romanzi Andrea Pinketts e Giorgio Scerbanenco. Generazioni differenti accomunate da un unico spirito, isole che rivelano che un tempo lì ci fu un continente, un continente in cui ogni individuo era un nodo di relazioni, continue, ininterrotte, sino allo sfinimento.
«Il giudizio universale non passa per le case / le case dove noi ci nascondiamo / bisogna ritornare nella strada, nella strada per conoscere chi siamo»: queste parole non sono di Svampa, e in realtà nemmeno di Gaber, che le inserì nel suo capolavoro La strada, ma di Bardamu, protagonista del Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline. Parole che ci fanno capire l’atmosfera di quella Milano, insieme alla portata del diluvio che ha sommerso un piccolo mondo antico, con i suoi equilibri e le sue omissioni, i taciti assensi e dissensi, gli intrighi, e, sopra ogni cosa, quella bontà non buonista né politicamente corretta che ha bisogno di raggiungere il termine della notte, il culmine della tragedia, per esplodere, realizzando il miracolo.