Colin Wilson & Jacques Bergier. Ovvero, la congiura della Storia
«La nostra civiltà, come ogni civiltà, è una congiura. Una miriade di minuscole divinità storna i nostri sguardi dal volto fantastico della realtà». Così si apre L’uomo eterno di Pauwels e Bergier, primo (e, di fatto, unico) di cinque volumi dedicati a una riforma dell’uomo moderno. Sono tesi assai simili a quelle del romanzo I parassiti della mente di Colin Wilson, uscito nel 1977 per Fanucci e tornato in libreria – anzi, in edicola – in «Urania collezione» pochi giorni fa, nella magistrale traduzione di Roberta Rambelli; una storia complicata e affascinante con al centro la «trappola della storia», l’idea che quest’ultima sia determinata da fattori ben più articolati di quelli che le nostre piccole menti razionaliste possono comprendere. Il libro era uscito in lingua originale nel 1976, esattamente vent’anni dopo l’opera più famosa dello scrittore britannico, The Outsider (anch’esso da poco in libreria grazie all’impegno della casa editrice Atlantide, di Simone Caltabellota). The Outsider è una galleria di eccentrici, una collazione di personaggi sempre in anticipo sui tempi (o, meglio, contemporanei in un mondo indietro di uno o due secoli), interpreti del proprio tempo liberi da anestesie sociali o politiche. Ecco cosa unì un Nietzsche e un Dostoevskij, un Van Gogh e un Hemingway: l’outsider di Colin Wilson è tanto malato quanto il mondo circostante, ma a differenza dei contemporanei sa di esserlo. Il che, spesso, gli dà parecchie noie. In un’epoca che livella ogni difformità, riducendo lo slancio geniale ai miasmi dello psicologismo o alle pastoie delle sociologie, questi personaggi non si arresero, e pagarono cara la fedeltà al proprio destino. È così, scrive Wilson, che si possono comprendere gli esiti tragici delle biografie di questi irregolari, da Shelley e Keats, da Poe a Beddoes, da Hölderlin a Hoffmann, fino a Schiller, Kleist, Lautréamont…
E qui arriviamo a I parassiti della mente, romanzo scritto sotto l’ascendente di H. P. Lovecraft (tra l’altro, fu August Derleth in persona, amico del Solitario di Providence e fondatore della storica Arkham House, a suggerire a Colin Wilson di cimentarsi nella narrativa) e tutto concentrato su un anno alquanto bizzarro: il 1800. A partire dal XIX secolo si verifica un singolare cambiamento nella razza umana. Nasce l’uomo romantico, col suo afflato sovraumano verso un’esistenza superiore. Un tipo che sarebbe stato guardato con sospetto in altri momenti della storia: i Romantici «sono come i marinai greci che udivano il canto delle sirene, e preferivano gettarsi tra i flutti piuttosto che tornare al mondo scialbo dell’esistenza quotidiana». Avendo sperimentato fugaci squarci d’assoluto, si dimostravano incapaci di far ritorno tra gli uomini, cui lasciavano la noiosa incombenza di stare coi piedi per terra. «Quanto al vivere, ci penseranno i nostri servitori» fa dire Villiers de l’Isle-Adam a uno dei suoi personaggi. Ben più del noto Albatros baudelairiano, è lui a incarnare lo spirito di un’epoca che si volle superiore al presente, alla Storia.
E il XIX secolo si vendicò, condannando il genio (che, secondo Wilson, ammonta allo 0,5% della popolazione) all’isolamento. Ma perché, tutt’a un tratto, la poesia, l’arte e la scienza cessano di dialogare con la civiltà? Perché non si può operare per l’umanità che nella solitudine dei laboratori, tra l’incomprensione dei più? È proprio qui che l’outsider si addentra nei domini dei parassiti della mente. I quali, scrive Wilson, dall’Ottocento infestano la psicologia occidentale, opponendosi al suo sviluppo, propagando ovunque ansie e depressioni. Un endemico vampirismo psichico che ha colto una civiltà intera.
Un tempo, anche se non sempre ne era cosciente, l’uomo possedeva la forza per scacciarli. Non che prima della modernità le cose andassero benissimo: sennonché, a fronte delle tragedie della Storia, «l’ottimismo dell’uomo e il suo potere di autorinnovamento erano così enormi che il caos lo stimolava a nuove imprese». Successivamente, tuttavia, qualcosa sembra cambiare: «Ci troviamo in un’era di tenebra, in cui gli uomini di genio non creano più come divinità. Sembrano invece lottare nella stretta di una piovra invisibile. Incomincia il secolo dei suicidi, l’era della disfatta e delle nevrosi». Per quale ragione è venuta meno la facoltà di autorinnovamento del genere umano? Proprio per questi vampiri della mente, che Wilson chiama tsathogguani (omaggio a Clark Ashton Smith, amico e corrispondente di Lovecraft nonché inventore dell’oscura divinità Tsathoggua, che entrò a far parte del panteon dei Miti di Cthulhu), i quali colpiscono tutti, ma soprattutto gli uomini di genio, che potrebbero condurre l’umanità a un miglioramento repentino. Sotto il loro giogo, la storia diventa un ininterrotto incubo collettivo: «Nella storia dell’arte e della letteratura, a partire dal 1780, noi vediamo i risultati della battaglia contro i vampiri della mente. Gli artisti che si rifiutavano di predicare il vangelo del pessimismo e della svalutazione della vita venivano annientati». Un autentico cancro cerebrale ha bloccato lo sviluppo spirituale dell’uomo, spingendo il progresso in una direzione esclusivamente materiale. E nel “migliore dei mondi possibili” l’uomo è divorato dalle ansie, dal “disagio della civiltà” di freudiana memoria.
Anche perché il raggio di azione di questi esseri (ad onta di quanto propagandato da certo complottismo) non è di natura socio-politica ma interiore: assediano la roccaforte del nostro Io, che non è chiuso in se stesso ma aperto verso l’alto e il basso, ci dice Wilson, ripetendo una sapienza comune a tradizioni assai eterogenee. Nulla di strano, insomma, non fosse per il fatto che a partire dall’Ottocento «l’io inferiore dell’uomo sembra ricevere un sostegno artificiale dall’esterno». E questo sostegno non si elimina con mezzi materiali, ma tramite un rinnovamento interiore. I romantici del XIX secolo affermavano a ragion veduta che gli uomini sono simili a dèi e dispongono di forze che normalmente ignorano. Ed essere simili agli dèi significa dominare le circostanze, senza esserne schiavi. Ebbene, se l’uomo se ne liberasse per un solo istante, «si renderebbe conto all’improvviso di avere poteri interiori al cui confronto la bomba all’idrogeno fa la figura di una candela». Diventerebbe «un abitatore del mondo della mente, così come ora è un abitatore della Terra», navigherebbe nei propri domini interiori come gli antichi esploratori si gettavano a capofitto in territori sconosciuti, «scoprirebbe di avere molti “io” e comprenderebbe che i suoi “io” superiori sono ciò che i suoi antenati avrebbero chiamato divinità».
Una prospettiva grandiosa, benché non priva di tratti chiaroscurali. Come sembrano adombrare queste pagine, siamo davvero certi che l’umanità sia pronta a compiere questo balzo in avanti? In caso negativo, l’azione dei parassiti potrebbe essere addirittura salvifica, mantenendo in essere la finzione della civiltà. «La civiltà è una congiura», «la storia è una trappola»: d’accordo, ma quanti saprebbero metabolizzare tale conoscenza?
Quando, nel 2000, scrisse Il grande libro dei misteri irrisolti, imponente atlante dell’Immaginario, Colin Wilson si rifece dichiaratamente alle idee di Jacques Bergier relative alla nascita e al declino delle antiche civiltà. Esse si sarebbero estinte avendo sviluppato una tecnologia elevatissima, che si sarebbe poi ritorta contro di loro. Un’idea dal valore epistemologico zoppicante ma dalla straordinaria portata etica che Bergier aveva approfondito in un altro studio, I libri maledetti. I protagonisti del saggio sono i sinistri Uomini in Nero, che dagli inizi della storia – e non dalla modernità, come i tsathogguani di Wilson – intervengono appena l’umanità è in procinto di compiere un salto evolutivo. Anch’essi, come i vampiri psicologici wilsoniani, sono avversi a geni e visionari. La loro setta, tanto per fare qualche esempio, sta dietro al saccheggio della biblioteca di Alessandria e all’Inquisizione, alle iconoclastie di tutti i tempi e al rogo del “mago” Giordano Bruno (in cui qualche buontempone continua a vedere un martire del “progresso della scienza”), ai falò nazisti dei libri e alle censure sovietiche, al fato che colse nel corso dei secoli i possessori del famoso Libro di Toth e alla distruzione della leggendaria Steganografia dell’abbate Tritemio (sembra che lo storico delle religioni Ioan Petru Culianu ci stesse lavorando, nei giorni prima del suo efferato omicidio, per mano tuttora ignota, nei bagni dell’Università di Chicago…).
Vi sono cose che non dovrebbero essere conosciute e il compito degli Uomini in Nero sarebbe d’interdire all’umanità di correre verso la propria distruzione. È interessante notare come quest’idea abbia attraversato letterature di ogni latitudine e longitudine, dal Grande Inquisitore raccontato da Ivan Karamazov a suo fratello Aleksej ai Nove Ignoti dell’omonimo romanzo di Talbot Mundy (uscito a puntate sulla rivista «Adventure» nel 1923), membri di una setta creata nel I secolo a. C. dall’imperatore Ashoka, guardiani di un sapere raccolto in nove libri che risulterebbe nocivo all’umanità se cadesse nelle mani sbagliate. Sino a giungere alla letteratura – più specifica – dedicata al Re del Mondo e affini (Guénon, Ossendowski, Saint-Yves d’Alveydre, Bulwer-Lytton e via dicendo). Un inno all’oscurantismo più intransigente? Null’affatto. Anche perché gli Uomini in Nero andarono a trovare ripetutamente lo stesso Bergier, nel corso di parecchie conferenze organizzate dalla rivista «Planète» ove si discettava di passato e futuro, materialismo e magia, tecnica e spiritualità, fisica quantistica e metastoria. E, benché non necessariamente di nero vestiti, anche allo scrivente è capitato di avvertirne la presenza in convegni animati dalla volontà di superare gli steccati usualmente posti tra i saperi…
Quella degli Uomini in nero e dei parassiti della mente è una visione del mondo basata sulla riduzione dell’uomo alla sua sola dimensione materiale, alle bassezze della vita quotidiana e alla prosaicità di una vita orizzontale, tra i nostri simili: «Il più grande problema umano è che siamo tutti legati al presente» ammonisce Wilson. Accennando a una via di uscita: riconquistare il proprio io, portando quegli sporadici squarci di libertà ed immortalità conosciuti dai romantici, dagli outsider, a condizione normale. Al riparo dai vampiri della mente, insomma: «Quando l’uomo perde il contatto con il suo essere interiore, la sua profondità istintiva, si trova prigioniero nel mondo della coscienza, cioè nel mondo degli altri». Ricordate la famosa sentenza aristotelica secondo cui l’uomo è un animale politico? «Una delle più grandi menzogne della storia umana. Infatti, ogni uomo ha più cose in comune con le montagne e persino con le stelle che con gli altri uomini». Una sapienza da custodire preziosamente, per tornare a essere presenti a sé stessi, decolonizzando una volta per tutte il proprio immaginario.