I sogni cosmici di Howard Phillips Lovecraft
Dire che l’uomo è sempre stato ossessionato dai sogni è quasi un’ovvietà. Pressoché tutte le culture hanno visto nella dimensione onirica una via alternativa al reale, un modo diverso di conoscere la realtà, fondandovi letterature e filosofie, teologie e cosmogonie, iniziazioni e pedagogie. Questo perché nei sogni accediamo a regioni del nostro io solitamente sopite e obnubilate dal mondo esterno, il quale ci rende ciechi a ciò che siamo. Non è un caso che anche nella letteratura moderna questa tematica spopoli in autori assai eterogenei tra loro, da Lewis Carroll a Calderón de La Barca, da William Shakespeare a Jorge Luis Borges, fino alla letteratura psicanalitica di Freud e affini. Ognuno di questi modernissimi argonauti visionari interpretò il mondo onirico a modo proprio, facendone di volta in volta la dimora degli archetipi, traendone vaticini sul futuro oppure trasformandolo nel ricettacolo di ciò che l’io cosciente rimuove. Data l’universalità del tema, potremmo addirittura spingerci a dire: «Dimmi come (e cosa) sogni e ti dirò chi sei».
Ne era ben cosciente Howard Phillips Lovecraft, il quale, oltre ad aver dettato il canone horror novecentesco, fu un prodigioso sognatore. Sin dalla tenera età, le sue notti erano popolate da terribili esseri senza nome, quei magri notturni che sarebbero finiti in molte sue storie. «Creature rugose, nere, cornute, sottili, con ali fibrose e la coda segnata da una bifida barba d’inferno»: così li avrebbe descritti nei Fungi from Yuggoth. Chi volesse farsi un’idea di quanto terrificanti fossero quelle creature, che afferravano il giovane Howard portandolo ad altezze vertiginose, per poi lasciarlo cadere a terra (a quel punto si svegliava, madido di sudore), può dare un’occhiata alle illustrazioni del Paradiso Perduto di Milton realizzate da Gustave Dorè: presenti nella biblioteca del giovane scrittore, furono esse a popolare le sue notti.
Molti si sarebbero rivolti a uno psicanalista (oggi, c’è chi ci va per molto meno…), ma Lovecraft non amava Freud, che in uno dei suoi racconti definì «il ciarlatano di Vienna», ideatore di teorie all’insegna di un «puerile simbolismo». Fu così che scelse un’altra, personalissima cura: decise di riversare tutto nella narrativa, passando senza soluzione di continuità dal mondo onirico all’immaginazione fantastica. I suoi sogni – non meno terrificanti dei suoi racconti – furono per lui una vera fonte d’ispirazione e meraviglia continue. Anche perché, come scrisse in varie occasioni, in queste incursioni notturne il sognatore evade dalla prigione del suo piccolo io, raggiungendo dimensioni ignote alla vita “diurna”: «I sogni degli uomini sono più antichi della saggezza d’Egitto o della Sfinge contemplativa, e di Babilonia cinta di giardini…». Parole che avrebbero stregato Carl Gustav Jung e che forse costituiscono il manifesto della poetica onirica del nostro autore.
Tutti i sogni di HPL sono ora raccolti in Oniricon. Sogni, incubi & fantasticherie, appena uscito per Edizioni Bietti a cura di Pietro Guarriello. Qui Lovecraft si mette a nudo, raccontando le proprie incursioni nell’Altra Realtà ai suoi amici e conoscenti. È, di fatto, una prima edizione mondiale: Oniricon si basa infatti sull’introvabile The H. P. Lovecraft Dreambook, uscito per la Necronomicon Press nel 1994 a cura di S. T. Joshi, Will Murray e David E. Schultz, mai tradotto in italiano. Sennonché, quando a curare un libro lovecraftiano è un esperto come Pietro Guarriello, tutto può accadere. E il volume originario è raddoppiato: i ventidue sogni dell’edizione americana sono diventati quarantuno. Ma non solo: oltre all’introduzione originaria di S. T. Joshi, il lettore ne troverà una di Gianfranco de Turris, che non abbisogna di presentazioni per gli amanti del Maestro di Providence, insieme a un imponente corpus di note esplicative, bibliografie e approfondimenti. Last but not least, la raccolta completa di quei racconti tratti direttamente dai sogni di HPL, senza altri suoi interventi: abbiamo così modo di leggere i sogni di Lovecraft raccontati da lui stesso, per poi seguirne in presa diretta l’elaborazione letteraria. Le traduzioni di questi testi sono state effettuate sui nuovissimi (e definitivi) testi della Variorum Edition di Lovecraft, pubblicati a cura di S. T. Joshi dalla Hippocampus Press tra il 2015 ed il 2017. Completano l’edizione un apparato iconografico e un saggio dello psicoterapeuta Giuseppe Magnarapa, che mette sul lettino i sogni di Lovecraft, interpretandoli – in modo molto laico e convincente, peraltro, senza forzare la mano né cadere vittima di quel riduzionismo in cui incappano molti altri freudiani che decidono d’improvvisarsi critici letterari. Una lezione ermeneutica che avrebbe da insegnare a molti.
Anche perché, per Lovecraft, i sogni non vanno a raschiare il fondo dell’inconscio, dell’Es, ma sono autentiche finestre spalancate sull’Altrove – quell’Altrove che avrebbe poi immortalato nelle sue opere più celebri. Basta leggere un estratto del frammento Terrore dal cielo e dalle acque, preso da una lettera all’amico Rheinhart Kleiner del 21 maggio 1920, per capire quali fossero i suoi orizzonti onirici:
«È un’esperienza strana, fantastica ed ultraterrena. Faccio sogni del genere da quando ho l’età per ricordarli, e probabilmente continuerò a farli finché non scenderò nell’Averno. Prospettive di paurosi dirupi – vette ed abissi di repellente roccia nera, nel mezzo di un’oscurità ripugnante. Ho viaggiato per strani luoghi che non sono di questa Terra, né di qualunque altro pianeta conosciuto. Ho cavalcato comete, sono stato fratello di nebulose…»
Sognando, insomma, il nostro scrittore usciva dal presente in cui si trovava, un presente che non amava, lui, inattuale perché contemporaneo del passato e del futuro, antimoderno in una modernità che gli stava stretta, rea di aver ucciso la bellezza e il potere dell’immaginazione nelle orrende gore newyorkesi, che amava mitologia e scienza, senza riuscire a rassegnarsi alla degradante prospettiva di dover scegliere tra le due. Sognando, evadeva nello spazio e nel tempo, scoprendosi di volta in volta console romano o in compagnia di Benjamin Franklin, contemporaneo di ere dimenticate. Procedeva a ritroso, percorrendo le strade di una memoria millenaria che si tuffava in un passato ancestrale, in cui qualcosa di orrendo e innominabile era accaduto. Lo aveva scritto a Woodburn Harris agli inizi del 1929: «Sogno le sere in cui sfere e pianeti gravitavano sulla criptica e ribollente Alessandria… E, ancora prima, Cartagine, e Tebe e Memphis e Babilonia e Ur dei Caldei. Sogno messaggi segreti che giungono dopo eoni da quei luoghi lontani e semidimenticati, e da altri ancora più oscuri, tenebrosi e vecchi, di cui solo voci sussurranti osano parlare. Quando li guardo, sento che a loro volta essi mi guardano, e la bellezza che proiettano sulla notte che si addensa e sulla cerea e crepuscolare città è un simbolo di glorie primordiali più antiche dell’uomo, più antiche della Terra, più antiche della Natura, più antiche persino degli Dèi, riservate solo alla mia anima mistica.»
Grazie all’impegno profuso dalla casa editrice Bietti e al magistrale lavoro compiuto da Pietro Guarriello, tra i più grandi curatori lovecraftiani, ora i lettori italiani possono finalmente accedere al corpus onirico dell’autore del ciclo di Cthulhu, in un viaggio di sola andata verso l’orrore, alla scoperta di dimensioni cosmiche ignote a chi vive di sola veglia, di sola ragione, di sola realtà.