Claudio Risé: «La terra desolata della modernità»
È appena uscito per Lindau un singolare libretto, firmato da Francesco Borgonovo e Claudio Risé. Vita selvatica è allo stesso tempo un dialogo tra due generazioni e una ricognizione sul nostro qui e ora, che si muove agilmente tra storia e archetipi, presente e passato, libertà e necessità, uomo e natura. Un manualetto da tenere sempre in tasca per guardare al nostro tempo in un modo autenticamente alternativo. Ne abbiamo parlato direttamente con Claudio Risé, psicoterapeuta e autore di una serie di studi che, percorrendo strade diverse, giungono tutti al cuore del problema: l’uomo moderno, nelle sue luci e nelle sue ombre. Il libro appena pubblicato non fa eccezione: il sottotitolo di Vita selvatica è, infatti, Manuale di sopravvivenza alla modernità. Un tempo in profonda crisi che viene interrogato in maniera serrata, utilizzando come chiave di lettura The Waste Land di T. S. Eliot, perfetta metafora della contemporaneità, che ci parla di una terra ridotta al silenzio e violentata dall’uomo, sottratta alle Muse e consegnata alla tecnica… Cosa ci dice questa potente immagine?
La terra desolata parla sostanzialmente della desacralizzazione. La terra è desolata perché non è più sacra. È una terra in qualche modo contaminata, offesa e disprezzata. Naturalmente – come tutti i momenti importanti della storia umana – è una situazione ricorrente. Non accade oggi per la prima volta: è un archetipo che ritorna. E noi siamo immersi in questo archetipo dominante – dominante per lo meno da Cartesio in poi, con l’idea filosofica di una res extensa contrapposta a una res cogitans. La terra e il corpo, secondo Descartes, non hanno un pensiero, sono soltanto oggetti. Ma ciò equivale a strappare la terra alla sua origine e alla sua destinazione – che sono entrambe divine – mutilandola della sua sacralità, istituendone così la desolazione. E poiché la desolazione è appunto una violazione, un impoverimento, noi ci troviamo in una crescente infelicità.
È un aspetto importante, che dà luogo a molti cambiamenti, alla fuoriuscita da un certo stato, con la conseguente liberazione dell’aspetto sinistro dell’archetipo. E gli archetipi non sono storielle, ma forze, rappresentate da immagini psichiche attive nell’inconscio collettivo, che acquistano potere sulle persone e le civiltà quando queste entrano nella situazione descritta dagli archetipi, ognuno dei quali è rappresentativo di una precisa condizione umana.
L’archetipo di cui stiamo parlando sembra indicarci l’oblio di quella forza che, secondo il Faust di Goethe, ci spinge verso l’alto… Cosa genera tutto ciò?
Ne nascono la violazione e la contaminazione dei corpi – a partire da quello della terra, che viene intossicata, ricoperta e abbandonata, non più amata né compresa. Ma lo stesso fenomeno è trasferito al proprio corpo e a quello degli altri, che non viene più rispettato ma manipolato, addirittura modificato. Ovviamente, questa violazione dell’origine e della materia originaria – che in sé è materia divina – crea una tremenda infelicità e genera malattie. In questo si rivela una hybris, un’arroganza dell’uomo che pensa di poter fare a meno dell’elemento sovrapersonale, divino, archetipico.
All’interno del libro parli spesso della capacità di trasformare le spinte pulsionali dell’ego in qualcos’altro, che trascende il nostro piccolo io. Parole controcorrente, in una civiltà che ha fatto del “tutto e subito” il proprio motto. Ma siamo sicuri che questo “tutto” sia davvero tale?
Certo che no; in realtà è pochissimo, è la minima parte di ciò che l’essere umano può raggiungere. Oggi ci viene offerta la diretta soddisfazione di un piacere. Ma questo piacere è ridotto a pulsione – positiva o negativa, costruttiva o distruttiva – che non esprime affatto tutte le potenzialità dell’uomo. Nemmeno quelle legate al piacere stesso. È un impoverimento che deriva, anche in questo caso, dal disprezzo della terra, dalla sua desolazione. La terra, infatti, è anche il corpo, il corpo vivente. Nel momento in cui disprezziamo la terra riduciamo il corpo a consumo, lo spogliamo del cogito, lo riduciamo a res extensa.
Ma le cose non stanno così: lo stesso piacere ha altre declinazioni oltre a quelle corporee – che, tra l’altro, sono anch’esse molto più profonde di quanto creda la logica del piacere-consumo. È un punto di vista, questo, del tutto diverso da alcune delle banalità correnti, cavalcate dai grandi media, dall’industria culturale, fortemente impegnata a servire il sistema dominante, che è quello che ha pagato – almeno, fino ad ora.
«Il Salvadego è colui che salva» ci ricorda Leonardo da Vinci. Il ricorso alla dimensione naturale, che la nostra civiltà tenta di negare, potrebbe condurci finalmente a casa?
Noi dobbiamo anzitutto ritornare a casa. La dimensione salvifica del mondo selvatico mi è stata chiarita soprattutto nel mio lavoro di psicoterapia. Molte persone si trovano in difficoltà proprio per questa desacralizzazione della terra, del corpo e dei corpi. Ebbene, lavorando con l’inconscio, con i sogni, ho visto che portano in sé squarci di mondo selvatico, di una natura incontaminata, di corpi forti, non modificati né alterati. È una dimensione che noi tutti ci portiamo dentro. È sufficiente ascoltarci, cercare questa dimensione con silenzio, devozione e rispetto, non con la logica utilitaristica del “tutto e subito” o della spettacolarizzazione. Tutte queste idee vanno contro la profonda sacralità delle forze della vita.
Una sacralità messa a repentaglio oggi dalla singolare alleanza stabilita tra Super-Io ed Es, il cosiddetto “capitalismo desiderante”, che di fatto ci impone di soddisfare le nostre pulsioni ad ogni costo.
È una congiunzione che ho constatato spesso nel corso del mio lavoro e che è stata formulata, dal punto di vista filosofico, da Slavoj Žižek. È uno dei suoi molti lampi di genio. L’ha descritta nel libro The Fragile Absolute. In Occidente viviamo, oggi, nella società del passaggio all’atto, del trasferimento di ogni desiderio nella soddisfazione immediata. Cedere alla pulsione è diventato un dovere, perché il consumo è il motore principale dello sviluppo economico. Ciò azzera le possibilità di crescita dell’Io, perché l’individuo non deve rinunciare a nulla, diventando così schiavo delle spinte pulsionali, variamente sollecitate. Nella storia moderna, in sostanza, vediamo la costituzione di un Super-Io, di una norma collettiva che impone il godimento, ma è un godimento nuovo, energeticamente scarico e predatorio, un godimento incapace di trasformazione, che ci impedisce, come dicevi prima parlando di Faust, di andare veramente verso l’alto.
Eppure è questo il vero desiderio umano. Cito spesso il filosofo contemporaneo – un matematico morto pochi anni fa – Gaston Bachelard, secondo cui l’uomo non è una creatura del bisogno, ma del desiderio. Ma questo desiderio non appartiene all’Es – che è appunto un bisogno che chiede soddisfazione immediata, ma ha un percorso molto più ampio e un obiettivo trascendente, che va al di là dell’Io. L’Es non è desiderio, ma pulsioni.
È invece il desiderio ciò per cui è fatto l’uomo, con la sua spinta trascendente, che passa attraverso i corpi riconoscendone il destino divino. Un desiderio lontano dall’obbligo di godimento edonistico e materialistico – non che la materia sia priva di divinità, tra l’altro; mi riferisco solo alla materia guardata in questo modo, che è appunto povera e desolata.
E qui torniamo alla Waste Land, da cui siamo partiti.
Questo tipo di terra non può volgersi verso l’alto, come diceva invece Goethe. Vorrebbe essere riscattata, ma per fare ciò occorre cambiare il nostro modo di vedere le cose, il mondo e i corpi. Compresi i territori. Contro la disumanizzazione dell’uomo occidentale, bisogna ricordare che nel corpo e nella terra vi è Dio.
Al di là delle tematiche trattate, Vita selvatica è un dialogo tra due generazioni, che si chiude con una nota di speranza. Quale pensi sia il ruolo rivestito dalla generazione di Francesco – che poi è anche la mia – nel futuro di questa modernità?
Devo dire che sono molto felice di aver fatto questo libro con Francesco Borgonovo – così come lo sono della nostra conversazione – proprio per questo aspetto intergenerazionale. L’impressione che ho è che la vostra generazione possa uscire da quest’universo disperatamente materialistico, imprigionato nella concezione di una materia priva di anima. Mi pare che molti di voi si collochino già al di fuori di tutto questo.
Anche perché è evidente ormai che si tratta di una strada senza uscita: basterebbe considerare i dati statistici – che lasciano di stucco tutte le autorità di controllo e direzione della salute – sull’impennata costante e continua delle malattie psichiatriche. È un modello di civiltà che porta alla disperazione e alla follia. Se molti ci finiscono dentro, altri invece, dotati di una forza vitale maggiore, reagiscono, si dirigono verso altri orizzonti.
Nel libro ho vissuto, insieme a Francesco, questo scambio, questa dimensione, e mi ha fatto molto piacere. Io sono alla fine del mio percorso: la speranza nei vostri confronti per me è fondamentale. È importante che vi siano dei lineamenti di cambiamento – e, secondo me, ce ne sono.