Abraham Merritt, il genio che stregò Lovecraft e Bergier
«Da sempre udiva il richiamo del passato. Nel corso degli anni vi aveva prestato orecchio, errando per terre dimenticate e sostando presso luoghi appartenuti a civiltà estinte, imperi tramontati e città scomparse». Nella Prima guerra mondiale l’autore di queste righe aveva intravisto il cuore di tenebra della modernità, rea di aver fatto crollare «quel ponte verso l’antichità su cui la sua anima aveva amato viaggiare», recidendo «il legame – una volta familiare – che univa passato e presente». A parlare non è un uomo in carne e ossa ma un personaggio di carta: John Kenton, protagonista de Il vascello di Ishtar, la cui nuova edizione ha appena raggiunto le librerie grazie all’impegno de il Palindromo. In realtà, è ben più di una riedizione: in un’epoca di ristampe anastatiche e ripescaggi senza aggiornamenti, è gratificante vedere come vi siano case editrici che ragionano in modo differente. Giuseppe Aguanno, direttore della collana che ha ospitato il libro, «I tre sedili deserti» (anch’essa palindroma, provate a leggere il nome al contrario…), non si è limitato a riesumare il romanzo, uscito esattamente quarant’anni fa nella leggendaria «Futuro» di Fanucci, diretta da Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, ma di fatto ha battezzato un altro libro: nuova la traduzione (basata sulla sua edizione a puntate, sulle colonne di «Argosy All-Story Weekly»), nuove le note al testo, inediti gli apparati critici, il glossario mitologico, il profilo biografico dell’autore, insieme alle magnifiche illustrazioni di Virgil Finlay che corredarono la sua prima apparizione. Insomma, non si potrebbe chiedere di più; tanto per cambiare, una piccola casa editrice ha adottato una cura editoriale che molto avrebbe da insegnare anche a realtà ben più “affermate”.
Le parole citate sono del protagonista del romanzo, ma potrebbero riferirsi anche al suo autore, Abraham Merritt. Giornalista e scrittore, botanico e studioso di sostanze allucinogene, le sue mille vite lo portarono a spaziare dall’archeologia alla mitologia, dalla storia comparata delle religioni al folklore. Tutte cose che questo avventuriero e archeologo del meraviglioso non studiava solo sui libri, se è vero, tanto per fare esempio, che visitò la città maya di Tulum, in Messico, cercò tesori nello Yucatan (che poi trovò…) e divenne membro di una tribù indiana, dopo regolare iniziazione. Ma s’interessò anche di stregoneria, sacrifici umani e occultismo. Queste le chiavi di lettura della sua narrativa, come lui stesso si prese la briga di sottolineare in diverse occasioni. E dall’intersezione di sacro e profano nacque un linguaggio che, come ha scritto Salvatore Proietti, oscilla fra «biologie e antropologie aliene», «demonologie e cosmogonie arcane», con un appello «all’occulto soprannaturale». La verità è che Merritt era anzitutto uno studioso che s’interessava di scienza e letteratura, realismo e magia, incapace – come tutti i migliori – di incatenare la propria curiosità a ultraspecialismi e miopie intellettuali.
Naturale che il suo genio abbia colpito una serie di “eccentrici” della cultura europea e americana, tra cui Jacques Bergier, che nel 1947 compì un viaggio negli Stati Uniti per incontrarlo, salvo poi scoprire una volta arrivato – allora non c’era Wikipedia ad aggiornarlo su nascite e morti – che era scomparso solo quattro anni prima. Il nostro “realista magico” parla di questo viaggio e di Merritt nell’undicesimo capitolo della sua autobiografia fantastica – purtroppo inedita in italiano – Je ne suis pas une legende, del 1978, ma il suo omaggio allo scrittore statunitense finì nel volume Admirations, pubblicato otto anni prima. Tra i primi a segnalare il genio di Merritt alla cultura europea, più che un saggio è la dichiarazione di una devozione incondizionata: «Merritt è senza ombra di dubbio un razionalista. Il suo universo è quello della scienza, non l’universo magico di un Machen. Ma è un cosmo estremamente ampio, molto simile a quello de Il mattino dei maghi. Vi si trovano civiltà scomparse, altre esistenti al di sotto degli oceani o in luoghi segreti del globo terrestre, la memoria genetica, la parapsicologia, porte spalancate su altre dimensioni».
Malgrado quella patina di razionalismo, insomma, la sua narrativa è «essenzialmente metafisica e sfiora problemi assai profondi». Ma è anche molto umana: i personaggi di Merritt, continua Bergier, non sono quelli di Lovecraft, che vengono travolti dagli eventi, ma vivono per lottare e muoiono sempre in piedi, maestri di un realismo eroico senza pari. Pur sapendo che talvolta l’esito delle loro avventure è disperato, non per questo depongono le armi, abbandonando il compito a cui sono stati chiamati, ma si mettono comunque alla prova.
Gli orizzonti di Howard Phillips Lovecraft e Abraham Merritt sono molto diversi – ciò è innegabile – ma le righe appena citate non esauriscono il loro rapporto intellettuale. In realtà, HPL leggeva e apprezzava parecchio le opere di Merritt, in particolare le due storie Il pozzo della luna e La conquista del pozzo della luna, uscite su «All-Story Weekly» tra il 1918 e il 1919. Le considerava tra le migliori weird stories di sempre. Secondo S. T. Joshi e David E. Schultz, i maggiori esperti a livello mondiale del Demiurgo di Providence, quei racconti potrebbero aver ispirato addirittura… The Call of Cthulhu! Sta di fatto che, dopo essersi letti a vicenda per decenni, i due s’incontrarono finalmente l’8 gennaio 1934 a New York. La sera stessa HPL scrisse ad Annie E. P. Gamwell: «Possiede tutte le mie opere, che ammira e incoraggia». Ma il resoconto più completo della serata in cui i due giganti dell’Immaginario si conobbero è contenuto in una lettera (inedita in italiano) indirizzata all’amico R. H. Barlow il 13 gennaio 1934, in cui si parla di Merritt: «Sembra conosca la mia opera da tempo e ne abbia una buona opinione. Avendo avuto notizia della mia presenza a New York, si è adoperato per entrare in contatto con me, e mi ha invitato a cena presso il suo club – The Players». Segue un ritratto minimo dell’autore:
«Rossiccio e dagli occhi grigi, è un uomo corpulento di quarantacinque o cinquant’anni. È estremamente gradevole e geniale, nonché un brillante e dotto conversatore, avvezzo ai più svariati argomenti. Dispone di parecchie conoscenze tra i mistici, ed è molto amico del pittore russo Nicholas Roerich, i cui bizzarri paesaggi tibetani ammiro da lungo tempo. Sono molto lieto di averlo incontrato personalmente, ammirando la sua opera da quindici anni».
Secondo Lovecraft è il migliore autore uscito dalla fucina delle riviste pulp, con la peculiare «capacità di lavorare sulle atmosfere, investendo i luoghi di un’aura di empio terrore. Credo di aver letto tutto di lui, ad eccezione di The Metal Monster e Burn, Witch, Burn – ma ora, grazie a lui, probabilmente colmerò queste lacune…». Ora, da noi, una di queste lacune è stata colmata, e il vascello di Ishtar torna finalmente a navigare nel suo universo parallelo, solcando le onde della Quarta Dimensione. Qui si svolge il romanzo, a bordo di una nave divisa tra le forze di Ishtar e Nergal, divinità mesopotamiche della Morte e dell’Amore: si danno battaglia dall’inizio dei tempi, nell’attesa che qualcuno possa scioglierle dalle consegne, restaurando l’unità originaria. Che poi è la funzione del mito, come sanno tutti gli studiosi più aggiornati, il quale non è studio di ciò che fu ma attualizzazione dell’origine, del principio. È per questo che, al di là della sua indubbia qualità narrativa, Il vascello di Ishtar è uno dei più begli inni alla potenza creatrice delle mitografie, d’Oriente e Occidente. Tramite Abraham Merritt, la testa recisa di Orfeo continua a intonare il suo canto, nel silenzio siderale di mondi lontani.
Ma non è tutto. Per riconciliare le forze di Ishtar e Nergal – realizzando il mysterium coniunctionis di cui ha parlato Carl Gustav Jung, l’unione di Animus e Anima, il maschile nel femminile e il femminile nel maschile – non bastano i miti. Serve un uomo. Di più: un uomo moderno. Ed ecco apparire John Kenton, che tra l’altro, a un certo punto, cerca di spiegare ai suoi nuovi compagni di viaggio come si vive nel “mondo reale”, aggiornandoli sulla modernità, su «macchine e guerre, nuove leggi e nuove usanze». Eppure, mentre si sorbiscono le cronache del “migliore dei mondi possibili”, i suoi interlocutori hanno reazioni piuttosto scomposte: la modernità appare scialba e grigia, priva di stile e incapace di assegnarsi un destino. «Non mi piace il vostro modo di condurre le guerre, non riuscirei a farmelo piacere» dice uno di loro. «I nuovi Dei mi sembrano così sciocchi» conclude un altro. A questo punto, è forse meglio restare nell’Altrove, al riparo dalle brutalità della modernità, dal terrore della storia, come lo definì Mircea Eliade. Ma questo non toglie che, alla fine, sarà un uomo moderno a risolvere l’antichissima contesa. Prodigi dell’Altra Realtà… Ecco la magia de Il vascello di Ishtar, cui approderà John Kenton, subendo una lunga trasformazione nel transito dal suo mondo – il nostro – all’Altro. Un passaggio tra dimensioni che si concluderà con l’estinzione dell’arcano odio tra Ishtar e Nergal, ricostituendo l’unità originaria e realizzando la coincidentia oppositorum. Prodigi dell’Altra Realtà.