Fiume 1919-2019. Diari dalla Città di Vita
12 settembre 1919. Esattamente un secolo fa, Gabriele d’Annunzio entrava in Fiume d’Italia, “disobbedendo” ai diktat di Società delle Nazioni e compagnia bella, inaugurando quella che Claudia Salaris ha definito, usando un’espressione che ha avuto molta fortuna, «festa della Rivoluzione». Il Vate aveva compiuto la Marcia di Ronchi febbricitante, e sempre febbricitante era entrato nella Città, realizzando un’Impresa annunciata giorni prima da parole irrevocabili, vergate a mano su carta intestata Ardisco non ordisco, quasi in un interiore conto alla rovescia: «Giovedì, nel pomeriggio sarò a Ronchi per partire verso il gran destino». Ancora ignaro del fatto che quella febbre, quel fuoco sacro, sarebbero rimasti accesi per cinquecento giorni, dando vita a un evento sacro e metastorico senza pari, in vista del Carnaro recitò la sua celebre “orazion picciola”. Così Edoardo Susmel ricorderà le atmosfere di quel discorso e il volto del Comandante, illuminato dal sole: «Era di un pallore mortale. La fronte, i radi baffetti, il mento erano incrostati di polvere; ma il suo occhio era vivo e la sua voce, dapprima lenta e fioca, diventò metallica, acuta, penetrante». Innanzi ai convenuti, quella voce proruppe: «Ufficiali di tutte le armi, vi guardo in faccia. La mia volontà usa porre dietro di sé l’irreparabile. Io scrissi ieri, sul punto di partire, a un compagno di fede e di violenza: “Il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi”. Ora bisogna – m’intendete? – bisogna che io prenda la città. Sì, è vero, ho la febbre alta. Non so se il mio volto sia pallido o acceso. Ma certo in me arde un demone, il mio demone. E dal male non menomato mi sento, ma aumentato. La sbarra di Contrida è guardata dai moschetti e dalle mitragliatrici di tre Potenze. Spezzeremo quella sbarra. Io sarò innanzi: primo».
Tra i narratori di quelle ore, concitate come poche altre, troviamo un giovanissimo cronista, che a onor del vero giunse nella Città Olocausta solo due giorni dopo, il 14 febbraio. Il suo diario, con il titolo Fiume, una grande avventura, è stato appena ripubblicato da Bietti, in una nuova edizione a cura di Daniele Orzati e con una densa postfazione di Anita Ginella dedicata all’autore, Carlo Otto Guglielmino, allora corrispondente del «Corriere Mercantile» di Genova – benché molti dei suoi reportage spediti al giornale fossero epurati, per via della censura intrapresa da Nitti (Cagoia, nell’indimenticabile definizione di d’Annunzio), nel timore che un’eccessiva informazione sui fatti fiumani potesse infiammare troppi animi… Cosa che, puntualmente, accadde.
Nel 1919 Guglielmino aveva diciotto anni, ma aveva già fatto in tempo a fondare il fascio futurista di Genova e tra l’altro – come ricorda Ginella – aveva provato a entrare in Fiume un mese prima della Santa Entrada, anticipando quell’autentico pellegrinaggio (Kochnitzky) che un pugno di mesi dopo avrebbe visto confluire nella Città di Vita artisti e rivoluzionari, letterati e sindacalisti, Arditi ed esteti. Come che sia, l’esito dell’operazione è documentato da una nota sul «Caffaro», pubblicata il 30 agosto:
«I Futuristi genovesi – dinamicissima avanguardia di Genova industriale – pronti a qualunque sacrificio contro le sottili arti, le losche insidie e le aperte violenze di un governo che non rappresenta il forte popolo italiano, protestano per l’indegno trattamento usato dalla Questura Italiana al compagno Carlo Otto Guglielmino, arrestato perché diretto a Fiume e ricondotto a Genova alla stregua di un delinquente».
Riuscirà a entrare nella Città di Vita, in modo piuttosto rocambolesco, nel settembre di quello stesso anno e nel corso della sua permanenza redigerà un diario, poi ripreso e rielaborato negli anni Cinquanta, una delle testimonianze più asciutte e antiretoriche dedicate all’Impresa. Lavorando nella Segreteria particolare del Comandante, ha modo di registrarne in presa diretta le sensazioni e i cambi d’umore, assistendo altresì a incontri epocali. Davanti a suoi occhi sfilano i grandi protagonisti del Novecento, da Marinetti e Mussolini a Toscanini e Marconi… Un piccolo aneddoto: quando il fondatore del Futurismo giunge a Fiume, vorrebbe arringare gli Arditi, ma d’Annunzio lo ferma. A meno che non reciti a lui – e solo a lui – La battaglia di Adrianopoli, meglio che taccia. «Parlo già troppo io» aggiunge il Vate, sarcastico.
Dalle pagine di Guglielmino emerge anche l’intensa e febbrile attività svolta dal Poeta, che lavora giorno e notte, tenendo discorsi, scrivendo proclami e occupandosi incessantemente di diplomazia. Così ad esempio annota, poco più di un mese dopo la Marcia di Ronchi: «Non so come d’Annunzio regga a tanto sforzo. Non va mai a letto prima di mezzanotte e si alza prestissimo. Scrive, riceve, visita i reparti, tiene discorsi. Mangia di regola nella camera da letto, facendosi portare un pasto leggerissimo. Non beve vino – se non in determinate occasioni – e poca acqua. Dopo ogni pasto si concede una tazza di caffè ed una sola sigaretta, che fuma a metà. Quando è costretto ad accettare l’invito dei reparti ed a mangiare alle loro mense, deve controllarsi: sa che basta un bicchiere di champagne a renderlo vivacissimo. Quando lavora nella sua camera indossa una vestaglia oppure, se fa freddo, il maglione grigio da aviatore». Collaboratore de «La Testa di Ferro. Libera voce dei Legionarii di Fiume», diretta da Mario Carli, Guglielmino ha anche modo di partecipare in prima persona a uno dei colpi di mano organizzati dal futurista Federico Pinna Berchet (il cui resoconto integrale è contenuto nel prossimo numero della rivista «Antarès – prospettive antimoderne», di prossima pubblicazione, tutto dedicato all’Impresa…), annotandone altri, dal furto di autocarri e mezzi militari al dirottamento di vari piroscafi, ovviamente senza colpo ferire, fino all’indimenticabile episodio dei “Cavalli dell’Apocalisse”. Ovvero quaranta cavalli sottratti dall’Ufficio Colpi di Mano e portati nella Città Olocausta. All’impresa segue un ultimatum: o verranno restituiti oppure il blocco della città verrà inasprito. D’Annunzio obbedisce, sennonché al posto dei quaranta purosangue sottratti, giovani e forti, ne rispedisce al mittente altrettanti vecchi e malconci – non prima di averli dipinti di bianco, rosso e verde.
Non mancano nemmeno piccoli aneddoti ed episodi riguardanti il Comandante, vero e indiscusso protagonista di Fiume, una grande avventura. Come una serata del 24 marzo, quando d’Annunzio entra nella Segreteria. In quell’immenso salone, affacciato sulla città e su un mare crepuscolare e sanguigno, quattro genovesi – Guglielmino, Mario Maria Martini, Giuseppe Canzini e Furio Drago – parlano della loro città. Quand’ecco che, improvvisamente, entra il Vate, straordinariamente euforico. Canzini si mette sull’attenti, ma gli viene fatto cenno di sedersi. D’Annunzio chiede notizie di Genova, dopodiché racconta di quando una sera, dopo l’inaugurazione del Monumento di Quarto, era riuscito a sgattaiolare lontano dagli ammiratori per compiere un giro notturno della città vecchia, verso il porto. «Non dimenticherò» mormora, leggermente commosso, «Porta Soprana immersa nel chiaro di luna. Le vecchie pietre sembravano fosforescenti. Il cielo che si vedeva al di là dell’arco era come uno specchio volto verso il mare, che quella sera doveva essere d’argento…».
Dopodiché parla di Portofino, di quella piccola cresta sopra il faro, affacciata su due mari, da cui s’intravede da un lato la costa che da Camogli si estende sino a Genova e, dall’altro, il Golfo del Tigullio. Non c’è luogo, in Liguria, che lui ami di più. L’atmosfera è quasi sospesa, descritta da Guglielmino con toni lirici:
«Il salone era pieno d’ombra e nessuno pensava ad accendere le luci per non rompere l’incanto di quel momento. Le mani di d’Annunzio tracciavano brevi parabole nell’aria, bianchissime. Fuori il tramonto si spegneva in toni sommessi. Il mare, dopo essere stato di porpora, ora era di un colore indefinibile, come una vecchia seta cangiante».
Dopo una breve pausa, assorto in chissà quali meditazioni, d’Annunzio mormora: «Dovete difendere la vostra città da ogni contaminazione, dal troppo frettoloso piccone che non rispetta nessuna memoria del passato e dal cemento armato con il quale l’uomo costruisce in fretta ma dimenticando ciò che è bellezza, ignorando le armonie che si ottengono posando una pietra su l’altra, un marmo su un altro…». Il giovane protagonista di questa storia non sa ancora come quelle parole ispireranno molte delle battaglie giornalistiche che intraprenderà decenni dopo sulle colonne del «Corriere Mercantile» e de «La Gazzetta del Lunedì», finalizzate a difendere la sua Liguria dalla rapace e scellerata distruzione paesaggistica messa in atto nel secondo dopoguerra…
Oppure il 2 aprile, quando il suo diario registra una passeggiata primaverile insieme al Comandante, vestito da Ardito e con il cappello all’alpina: «Disse che bisognava andare incontro alla primavera per farle festa; che ogni tanto occorre infiorare le armi perché se no diventano vecchie». Composta da Guglielmino e da altri genovesi, quel primo pomeriggio inondato dal Sole la colonna parte, al canto degli Arditi:
Se non ci conoscete
guardateci dall’alto,
siam fatti per la guerra
siam fatti per l’assalto…
Ad aprire la fila è d’Annunzio, descritto dal diciottenne con toni quasi metafisici: «A vederlo di dietro, con la giubba attillata, i calzoni ampi sugli stivali lucidi, procedere agile su per il sentiero pietroso, sembrava un ventenne. Quando la cima apparve vicina, si voltò a segnarcela e la sua figura, in quel punto, non aveva dietro a sé che il cielo; così incorniciato d’azzurro, stilizzato, con quel volto macerato, a qualcuno di noi parve un Santo guerriero che additasse un Paradiso». Un Paradiso annegato una manciata di mesi dopo nel sangue fraterno, per decreto dei “poteri forti” di allora. Un esito che, tuttavia, non basta a cancellare l’aura sacra di quell’esperienza, unica nel suo genere, apertasi un secolo fa, quando la colonna capitanata da d’Annunzio giunse nella Città liberata. Quando, come scrive Guglielmino meno di settantadue ore dopo quel fatidico 12 settembre, abbrivio di una vera e propria Quinta Stagione sul mondo, «ad un tratto, quasi una marea, si vide la gente avanzare, come impazzita. E nel silenzio esplose il rombo di tutte le campane che suonavano a martello, come quando il fuoco rugge e divora. Ed era veramente un incendio: stava avvampando il cuore della città».