Il cosmo notturno di William Hope Hodgson
È un simbolismo molto potente a legare due romanzi brevi di William Hope Hodgson usciti qualche tempo fa in libreria. Il primo è La casa sull’abisso, contenuto nell’antologia mondadoriana I miti di Cthulhu, curata da Giuseppe Lippi, Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco. Se il racconto è finito tra le storie che hanno anticipato o ripreso l’orrore lovecraftiano, una ragione c’è. Era, infatti, tra le narrazioni preferite dal Demiurgo di Providence, insieme a quelle di Edgar Poe, Ambrose Bierce, Robert Chambers, Matthew Phipps Shiel, Arthur Machen, Algernon Blackwood, Montague Rhodes James e Abraham Merritt. Uscito originariamente nel 1908 e riproposto nella traduzione di Maria Barbara Piccioli, La casa sull’abisso è un’incursione, spaesante come poche altre, nell’Altrove più assoluto. La trama è piuttosto nota. Nel corso di una gita fuori porta, seguendo le tracce di un fiume che s’inabissa repentino nelle viscere della Terra, due amici giungono al cospetto di uno sperone roccioso proteso su un’immensa voragine. Al suo culmine sono incastonate le rovine di una casa antichissima, che custodiscono un diario manoscritto, contenente sia la storia di quella dimora sia quella del suo padrone di un tempo, assediato da oscure creature provenienti dall’abisso sottostante. Dopo aver respinto gli attacchi di quegli esseri demoniaci, forze ultraterrene provenienti da chissà quale bizzarra dimensione, il protagonista dello pseudo-diario – chiamato semplicemente il Recluso – compie due esplorazioni, la prima spaziale e la seconda temporale. Scopre che in cantina si apre una botola spalancata sulla voragine sottostante, dal diametro di un centinaio di metri, nella quale si gettano ruggendo i fiumi sotterranei, creando un pandemonio spumeggiante, un gorgogliare che sembra provenire dal centro della Terra.
L’uomo decide di avventurarsi in quegli anfratti, operando una catabasi, una discesa agli inferi, affrontando la solitudine di «lugubri caverne mai illuminate dalla luce del sole». Giunto sul ciglio della voragine, ne percorre la circonferenza, provando a illuminarla con le poche candele che ha con sé: «Era come se quindici minuscole stelle brillassero attraverso la notte sotterranea», costituendo un firmamento ctonio, una volta stellata nel buio della caverna schiumante. È un’immagine molto eloquente, che ritroveremo anche nell’altro racconto di cui parleremo.
Alla riemersione segue un altro viaggio, di natura ben diversa. Il tempo accelera sempre più, le nuvole attraversano convulsamente il cielo, insieme al Sole e alla Luna, che disegnano scie luminose sulla volta celeste, le lancette dei minuti vorticano sul quadrante dell’orologio innanzi al protagonista sbigottito, cui verrà rivelato il futuro della nostra galassia, milioni di anni più avanti. «Più veloce, sempre più veloce, girava vorticosamente il mondo»: intorno a lui tutto decade, il suo cane Pepper e sua sorella muoiono. Ma qualcosa lo tiene in vita, lo costringe a vedere uno spettacolo che, in un certo senso, è destinato a lui e a lui soltanto (analogamente a quanto accade al Vecchio Marinaio della mitica Ballata di Samuel Taylor Coleridge: «And yet I could not die»). Questo viaggio in avanti è in un certo senso analogo alla discesa nel pozzo: una catabasi siderea, pellegrinaggio tra le immense distanze dell’universo. Il protagonista ritrova, infatti, l’oscurità della voragine nella profezia di un futuro lontano avviluppato nel buio cosmico di un Sole Nero, di un Sole che si è spento. «I vagabondaggi dello spirito del narratore attraverso infiniti anni-luce di spazio cosmico e immensi cicli di eternità, e la sua testimonianza sulla distruzione finale del sistema solare», scrisse Howard Phillips Lovecraft nel saggio The Weird Work of William Hope Hodgson, risalente all’agosto del 1934, «costituiscono qualcosa di pressoché unico in letteratura».
Ma HPL non fu l’unico a rimanere impressionato dal racconto, del cui simbolismo si occupò anche lo storico dell’alchimia Serge Hutin, nel suo La tradition alchimique (1979). Nel capitolo dedicato alla Conoscenza totale del ciclo terrestre, dopo aver parlato del racconto di Jules Verne L’eterno Adamo, dedicato ai Nuovi Inizi dell’umanità futura, scrisse:
«Un altro scrittore, William Hope Hodgson, nel suo romanzo breve La casa sull’abisso dà un affresco apocalittico dalle risonanze ancora più lontane, poiché ci descrive – a seguito della scomparsa di ogni forma di vita nel nostro pianeta – la fine del sistema solare e persino dell’intera galassia, nella sua totalità».
E prosegue:
«Hodgson era tra gli alti gradi della società segreta dell’Alba d’Oro: se sappiamo leggere tra le righe, ne possiamo dedurre che abbia ottenuto le sue profezie attraverso un’operazione di magia cerimoniale (la descrizione della vasta caverna misteriosa è infatti quella – codificata – del tempio sotterraneo nel quale Hodgson aveva compiuto il proprio rituale)».
In realtà, l’autore non fece parte dell’Hermetic Order of the Golden Dawn (di cui furono membri scrittori e poeti come William Butler Yeats, Blackwood e Machen, giusto per fare qualche esempio) e il sovrannaturale innegabilmente presente nelle sue opere non ha una struttura sistematica, derivante da approfonditi studi e/o pratiche. È un’apertura piuttosto vaga e sui generis, riflesso di tematiche allora molto diffuse, a livello letterario e non. Ma questo non rende La casa sull’abisso meno interessante, da un punto di vista simbolico. Anzi.
A scandire la narrazione, ad ogni modo, rimane il contenuto tragico di queste profezie. Ad attendere l’umanità a venire è un’interminabile tenebra: «Il mondo aveva preso una terrificante sfumatura oscura, come se davvero fosse giunto l’ultimo giorno del creato. Il Sole stava morendo». Sulla Terra agonizzante, il protagonista assiste, nel corso di una lunga rêverie a occhi aperti, a un evento epocale come pochi altri, alla chiusura di un ciclo: «Tutto ciò che rimaneva del grande, glorioso sole, era un immenso disco morto, bordato da un sottile anello di luce rosso bronzeo».
Una distruzione radicale, un inesorabile conto alla rovescia testimoniato anche da due divinità, che fanno capolino nella narrazione, vale a dire l’oscuro dio egizio Seth, fratello di Osiride, figlio di Geb (la terra) e Nut (il cielo), e la dea Kālī. Se è per questo, la divinità hindu è presente anche nel primo racconto scritto e pubblicato da Hodgson, La Dea della Morte, associata alla misteriosa e controversa setta dei Thug. L’uso letterario di questa divinità, come ha notato Pietro Guarriello, riflette una moda abbastanza diffusa nella narrativa avventurosa e fantastica del tempo, con Kipling in testa, ma ha anche un valore simbolico rispetto alla notte di cui stiamo parlando. Come noto, Kālī è associata alla fase discendente dei cicli, all’Epoca Oscura (Kālī-Yuga). L’iconografia non mente: è nera, colore che implica la sua assoluta alterità e trascendenza rispetto agli enti materiali. È divoratrice del tempo, del fluire delle cose. È nuda, spoglia di ogni determinazione qualitativa. È adornata da cinquanta teste spiccate, cinquanta teschi che simboleggiano le lettere dell’alfabeto sanscrito, a loro volta simboli delle potenze creatrici (nel mondo tradizionale, il linguaggio non è un mezzo tra gli altri o una diavoleria neuro-scientifica, ma un dispositivo narrativo fantastico capace di generare e dissolvere universi). Ebbene, è questa la divinità che patrocina idealmente la narrativa di Hodgson, tutta improntata a una “storia notturna”, che ne La casa sull’abisso diventa anche sinistra profezia: «In quell’attimo di supremo futuro, il mondo, buio e intensamente silente, viaggiò nella sua oscura orbita, intorno alla greve massa del sole morto».
Uscito su «The Royal Magazine» nell’aprile 1904, il racconto dedicato a Kālī è tra gli Incubi ritrovati de Il sogno di X, libro hodgsoniano dato alle stampe da il Palindromo a cura di Pietro Guarriello, nella traduzione di Giuseppe Aguanno. Oltre a una selezione di racconti, alla raccolta poetica Il richiamo del mare tradotta di Maria Ceraso, il libro contiene la prima edizione italiana de Il sogno di X (1912), versione ridotta del monumentale romanzo La Terra dell’Eterna Notte. Proposto con venti immaginifiche illustrazioni di Stephen E. Fabian, non è una mera riduzione del romanzo – di cui comunque mantiene le cupe atmosfere – ma una versione del tutto autonoma, il cui scenario ci riporta al viaggio temporale compiuto dal Recluso. L’ambientazione del racconto – basato, come La casa sull’abisso, su un manoscritto ritrovato – è una Terra precipitata in una notte senza fine, interrotta di tanto in tanto da misteriosi e sinistri fuochi. A seguito di una serie di terribili mutamenti nella biosfera di cui nulla sappiamo, a popolare il nostro pianeta troviamo mostruosità dall’origine incerta, creature che paiono sfidare le tre dimensioni, impegnate nel perenne assedio di quello che è l’ultimo baluardo della razza umana, impaurita e agonizzante, che non ricorda quasi nulla del proprio passato, relegandolo tra le brume di miti e leggende. Si tratta dell’«Ultima Ridotta, l’enorme Piramide di metallo grigio in cui gli ultimi milioni di abitanti del mondo avevano trovato riparo». Alta tredici chilometri, edificata in 7070 anni, la Ridotta ha 1320 piani, ognuno dei quali ospita una città. Al di sotto di essa si staglia un’altra piramide, con trecentosei giardini sotterranei, necessari al sostentamento della costruzione superiore.
La struttura è cinta e protetta da un cerchio di Corrente Tellurica, tratta dalle viscere terrestri, che si esaurirà nel Giorno del Giudizio. In quel momento, la luce (agente frenante, katechon) si spegnerà del tutto e la Terra precipiterà per sempre in balia delle tenebre e degli esseri che le popolano. Sarà un’Apocalisse senza Rivelazione, definitiva battuta d’arresto della Storia, conclusione di un ciclo non scandito da albe e tramonti, né originato dal Fiat lux biblico, ma da un oscuramento originario. Una “storia notturna”, appunto, cominciata milioni di anni prima, «dall’età che la gente di quell’Era concepiva come i primordi della Terra, quando il sole, nel cielo notturno del mondo, forse divenne opaco e poi si oscurò».
È un singolare ribaltamento di prospettiva. Il futuro spegnimento del sole de La casa sull’abisso qui è un evento verificatosi in un lontanissimo passato. La fine di una storia, per così dire, coincide con l’inizio dell’altra. Una struttura contrapposta e speculare, la cui dialettica ricorda quella tra la casa e l’abisso e le due piramidi. Eppure, a un certo punto, X sospetta che l’irruzione dell’Altrove sulla Terra abbia preceduto l’avvento del Sole Nero, legandosi all’azione delle scienze moderne, che «avevano interferito con gli incommensurabili Poteri Esterni, consentendo ad alcuni Mostri e a certi esseri Ab-umani – che nel Presente conducono la propria esistenza separati dalla realtà a noi conosciuta – di attraversare la Barriera che preservava le nostre Vite». Per il tramite degli scienziati, apprendisti stregoni alle prese con forze ignote e sovraumane, «queste grottesche e spaventose Creature si erano dunque materializzate, in certi casi accrescendo le proprie dimensioni». La loro azione non fu solamente materiale, agendo al tempo stesso «sullo spirito degli uomini. Ciò ebbe conseguenze disastrose: il mondo intero sprofondò nel caos e nella degenerazione». Siamo di fronte a un topos letterario molto diffuso, tanto in Lovecraft quanto in autori come Chambers e Machen: giocando prometeicamente con l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo che sgomentavano Pascal, gli scienziati aprono faglie nella realtà, nella Grande Muraglia (Guénon), facendovi entrare forze che poi non sono più in grado di controllare.
Eppure, nell’esatto istante in cui le Potenze delle Tenebre fanno irruzione nel destino dell’Uomo, sorgono altre forze. Mentre l’astro si ottenebra, nascono nuove luci, nuovi soli a squarciare l’oscurità ipogea di un mondo abbandonato a se stesso. È quanto accade agli uomini rimasti immuni alle influenze delle creature evocate dalle “scienze positive”, che si riuniscono e si barricano nell’Ultima Ridotta: «Tutto questo accadde al crepuscolo del mondo, che corrispose all’Alba di una nuova Era».
È percorrendo questa Notte Eterna che il protagonista tenta di raggiungere la Ridotta Minore, un’altra piramide che nessuno ha mai visto, attraversando un pianeta popolato da esseri che si cibano degli sventurati che osano decifrarne gli enigmi. S’imbatte in scenari mozzafiato, su cui aleggia il senso di una minaccia sempre incombente, di qualcosa annidato nell’ombra perennemente in procinto di ghermire il lettore. Come ha scritto Andy Sawyer, vi si affaccia un «un cosmo di orrori inesplicabili in cui il mondo materiale è solo un’ombra di ulteriori e più inquietanti piani dell’esistenza». Un orrore – al tempo stesso fisico e metafisico, materiale e spirituale – che, comunque, non impedisce a X di partire, compiendo la propria missione nel cuore notturno della storia cosmica. Non cedendo al terrore, scrive sempre Lovecraft,
«si avventura fuori della piramide in una ricerca attraverso quel regno di morte in cui nessun uomo si era spinto da milioni di anni, e dalla sua lenta avanzata attraverso inconcepibili leghe di tenebra immemore scaturisce un senso d’alienazione cosmica, di mistero mozzafiato che non ha rivali in tutto l’arco della letteratura».
Come ha notato Pietro Guarriello, (magistrale) curatore della prima edizione italiana del racconto, si potrebbero vedere le avventure di X come «una sorta di Odissea orrorifica», dove l’eroe deve compiere un viaggio periglioso all’insegna dell’imprevisto, sottoponendosi a dure prove per liberare la sua amata e far ritorno a casa, ripercorrendo le tappe descritte da Joseph Campbell nel suo immortale L’eroe dai mille volti. Un viaggio archetipico, insomma, simile alla “cerca” medievale, il cui protagonista incarna «l’antico cavaliere errante che parte alla ricerca di un amore idealizzato, muovendosi in un paesaggio arcano costellato d’incubi e chimere, creature e mostri degni di un bestiario gotico. Un’impossibile missione cavalleresca, che intreccia amor cortese, battaglie epiche e cupe descrizioni di terre inospitali solcate dalle forze del male». E, come ogni avventura degna di questo nome, è «una sorta di viaggio mitico e iniziatico, un “rito di passaggio” al cui richiamo non ci si può sottrarre, e di cui si trovano illustri precedenti nell’epopea di Gilgamesh, nelle leggende arturiane o nel viaggio di Dante». Un viaggio possibile anche dove la tenebra s’addensa; anzi, forse mai come in quel momento.
«Luce!» esclama il Recluso de La casa sull’abisso, presentendo gli effetti dei secoli di oscurità squadernati dalla sua visione. «Bisogna passare un’eternità avvolti in una notte senza suoni, per comprendere tutto l’orrore di esserne privi». Eppure, la sapienza degli Antichi indica altre vie per affrontare l’abisso, vie legate alla memoria di aver visto la luce prima di immergersi nel terrore ipogeo, basate sull’attivazione di una luce differente da quella che viene meno. Una luce necessaria tanto nelle notti “quotidiane” quanto in quelle storiche (anche la storia ha solstizi ed equinozi…). Ebbene, è questa luce a promanare dalle pagine dei due racconti, fuochi accesi nella notte, che invitano alla custodia di una scintilla nel culmine della disperazione, facendo dell’abisso un nuovo firmamento e del «Sole delle Tenebre», che splende sulla Terra deserta, la premessa di un’ultima impresa eroica, un’estrema avventura tra le volute di un’oscurità sempre più impenetrabile. Un’ultima, solstiziale, “cerca del Graal”, forse la più importante, prima che la notte si estenda su tutto.