Mishima: arte, azione, narrazione
Il 6 e il 9 agosto 1945 gli americani radono al suolo Hiroshima e Nagasaki. Sei giorni dopo, il 15, a mezzogiorno in punto l’imperatore Hirohito parla alla radio, e per la prima volta milioni di cittadini sentono la voce di chi era ancora considerato un’emanazione divina, discendente della Dea del Sole Amaterasu-Ōmikami. Utilizzando un raffinato linguaggio di corte che in molti forse nemmeno capiscono, Hirohito parla di «condizioni non necessariamente favorevoli», un eufemismo che cela l’ultimatum di Roosevelt e Churchill, un aut aut tra la resa immediata e la distruzione totale. Distruzione di cui gli attacchi incendiari a Tokyo (il 40% della capitale ridotto in cenere, oltre centomila morti), secondo il copione Dresda-Norimberga tristemente noto anche in Europa, e le devastazioni in sessantaquattro città del Paese sono solo un piccolo antipasto, per poi non parlare dei due funghi atomici. Scioccati dall’aver udito la parola divina di Hirohito, insieme al terribile messaggio, decine di giapponesi si suicidano. Un’escalation di morti che raggiunge il suo apice l’1 gennaio 1946, quando il sovrano celeste, in ossequio ai “principi” delle forze di occupazione statunitensi capeggiate dal generale Douglas MacArthur, firma e diffonde la famigerata Dichiarazione della natura umana, in cui smentisce la propria origine divina, così rinnegando la superiorità del popolo giapponese sugli altri. È un omaggio ideologico tributato ai vincitori, una resa non solo materiale ma anche e soprattutto morale, un ossequio che cela un’autoumiliazione senza precedenti, offerto ai nuovi arrivati da una civiltà che fa piazza pulita della propria tradizione millenaria solo per entrare in un’altra sfera d’influenza, consumista e globalista, i cui valori sono sinistramente condensati nei nomignoli delle due bombe che distrussero Hiroshima e Nagasaki: Little Boy e Fat Man. A partire dal 1946 l’Imperatore non è più un simbolo divino ma dello Stato. La transizione tra due epoche – che in Europa ha richiesto secoli e secoli per radicarsi, dando origine alle celebri “teologie politiche” (Schmitt) – in Giappone si è verificata in un pugno di mesi, concludendosi nel 1952, anno in cui terminano formalmente sia l’occupazione militare sia una rieducazione improntata ai principi democratici ed egualitari del Mondo Nuovo, imposti a un popolo stremato da una guerra perduta.
Il repulisti democratico e l’umanizzazione dell’Imperatore scioccarono un’intera generazione. Uno dei casi emblematici è costituito dal “samurai moderno” Yukio Mishima, che il 25 novembre del 1970 commise seppuku, il suicidio rituale, dopo aver inneggiato proprio all’Imperatore (Tennō heika, banzai!). Sulla cui figura era già tornato quattro anni prima, nello splendido La voce degli spiriti eroici (ultimo volume della trilogia comprendente Patriottismo e Crisantemi del decimo giorno), dove, facendo parlare idealmente i piloti kamikaze, aveva scritto:
«Quando l’Imperatore dichiarò / di essere una creatura umana, / gli spiriti che sacrificarono / la vita per un Dio / vennero spogliati del loro nome. / Non ebbero più templi / in cui essere venerati / e dai petti ormai vuoti / zampillò nuovo sangue. / Non v’è requie per loro, / neppure nel mondo degli spiriti […]. / Nel biasimo, nelle ingiurie della gente / Sua Maestà, in solitudine, / avrebbe dovuto custodire / la divinità della sua persona / senza osar proclamare / che era illusoria, mendace».
Tra l’altro, il quel fatidico 1945 Mishima si era sottoposto a una visita per l’arruolamento ed era stato giudicato – erroneamente – inidoneo. Aveva meditato di suicidarsi, facendo addirittura testamento. Negli anni successivi avrebbe dichiarato di essere sopravvissuto a quel periodo solo esteriormente. Come il suo Paese, potremmo aggiungere.
Drammaturgo e poeta, culturista e attore, autore di saggi di filosofia e romanziere, nel cinquantenario della morte la sua figura è ricordata in Mishima martire della bellezza, appena edito da Alcatraz a cura di Alex Pietrogiacomi (oltre alla versione distribuita, segnaliamo duecento copie fuori commercio con variant cover cartonata, ordinabili scrivendo direttamente alla casa editrice). Il volume condensa in una serie di brani scelti il pensiero dello scrittore, riassumendo la tensione esistenziale di un intellettuale che provò a sintetizzare corpo e spirito, pensiero e azione, a lungo scissi da una certa cultura. Un uomo che fece del corpo un fenomeno sacro, un trampolino per lo spirito («Senza alcun preliminare atto di culto» scrisse, «il corpo viene offerto all’asta infangato dallo spirito mercantile») e non la sua prigione, artefice di una «letteratura della spada, non della penna», come scrisse lui stesso in Abito da sera (1967).
Al secolo Kimitake Hiraoka, lo pseudonimo destinato a immortalarlo nella letteratura novecentesca – tanto da fargli sfiorare per ben tre volte il Nobel – gli fu suggerito dal suo insegnante di giapponese, Shimizu Fumio, anche se il padre dirà che lo scelse a caso, pescando da un elenco telefonico, un po’ stupito dal genio precoce di quel figlio ribelle che scelse la letteratura al posto di una comoda carriera ministeriale. Lo usò per la prima volta nel 1941, mantenendolo fino alla fine dei suoi giorni.
Prima di essere rivelazione di un carattere, maturazione di un uomo e scoperta di un destino, nonché esercizio stilistico come pochi altri, la letteratura di Mishima è un termometro capace di misurare gli ultimi decenni di una civiltà intera, coincidendo, come ha scritto Mitsuharu Hirose (Letteratura e azione, in «Antarès», n. 2, 2012), con «la presa di coscienza delle proporzioni dell’ondata di occidentalizzazione in atto: la costrizione a rinnegare la discendenza divina da parte dell’imperatore, la stesura di una Costituzione scritta su modello americano, accettata dal Parlamento con il benestare delle rappresentanze politiche ed il mancato riconoscimento formale di un Esercito Nazionale».
Eppure, la dimensione politica innegabilmente presente nell’opera di Mishima non è mai cronachistica, né si appiattisce sulla mera attualità, ma tende sempre a spingersi oltre, abbracciando ciclicità più ampie e percorrendo tragitti imprevisti e meta-politici. Avverso ai valori della modernità e innamorato del Giappone tradizionale, Mishima decise di fare della propria vita la testimonianza di un modo d’essere alternativo al presente: «Mi limito a ripetere come un pappagallo gli antichi ideali, che ora sono andati perduti», recita uno degli aforismi raccolti da Pietrogiacomi. Ne derivò un’attenzione particolare nei confronti dell’arte e della bellezza, svalutate dal modernismo rampante, segni di un estetismo che considera il reale alla stregua di potenziale opera d’arte, facendo di questa bellezza un compito a cui rispondere e di cui rispondere. Il destino come obiettivo, l’azione come mezzo, la storia come trampolino. È questa triade a misurare il temperamento di Mishima, risolvendo le apparenti aporie e contraddizioni presenti nella sua letteratura: «L’essenza dell’azione è infrangere con energie irrazionali il limite a cui è approdata la razionalità». Se l’apparire della contraddizione misura il limite estremo raggiunto dalla ragione, spetta all’azione superarlo, sintetizzando i contrari entro uno slancio eroico che trascende e, al tempo stesso, realizza la parola scritta. Da questo punto di vista, è possibile vedere nel seppuku del 25 novembre la più riuscita opera di Mishima, a partire dalla quale leggere tutte le altre, come lui stesso avrebbe voluto.
Quella del “poeta samurai” è una volontà tesa a dissolvere il reale dopo averlo convertito in poesia, solo per mettere alla prova il proprio Io, ricordandogli che è stato lui stesso a creare il mondo, anche se ne ha perso memoria. Corollario di questa visione eroica dell’esistenza è l’idea di un ininterrotto mettersi alla prova, un continuo esigere da sé, le arti marziali come disciplina del corpo e un volo a bordo di un F-104 come modo di verificare la propria tenuta esistenziale (Sole e acciaio, 1968), il mito a risorgere anche dove è la tecnica a dominare.
Anche secondo Marguerite Yourcenar (Mishima o la visione del vuoto, 1981), l’arco temporale coperto da una vita esemplare come la sua abbraccia una civiltà «passata dall’eroismo dei campi di battaglia all’accettazione passiva dell’occupazione, riconvertendo le sue energie in quell’altra forma di imperialismo che è l’occidentalizzazione a oltranza e lo sviluppo economico a ogni costo». Da questa identificazione nacque una critica spietata della classe dirigente del Giappone post-bellico e democratico, che lo spinse a dialogare con il gruppo degli studenti comunisti dell’Università di Tokyo, uniti nel combattere il nemico unico dell’omogeneizzazione a stelle e strisce. Il biografo di Mishima Henry Scott-Stokes riporta alcune delle considerazioni espresse dallo scrittore a caldo, subito dopo quell’incontro universitario: «Ho scoperto di avere molti punti in comune con loro, l’ideologia rigorosa e l’inclinazione per la violenza fisica, ad esempio. Rappresentiamo un nuovo tipo di Giappone. Siamo come amici separati da un filo spinato; ci sorridiamo senza poterci abbracciare». Per poi aggiungere, chiudendo il cerchio: «I nostri scopi si assomigliano, ma io possiedo un atout che essi non hanno: l’Imperatore».
Nel titolo della sua precoce autobiografia Confessioni di una maschera, del 1948, è forse racchiusa la lacerazione che percorre la scrittura di Mishima, che continua a interrogare se stessa, facendo dialogare inchiostro e carne, riunendo intorno a un dàimon cui restare fedeli quelle che solo un occhio esterno può identificare come “contraddizioni”: «È un difetto frequente della fanciullezza credere che, se si trasforma il demone in eroe, il demone sarà soddisfatto». In queste parole c’è tutto Mishima, dalle nebbie di un’adolescenza inquieta fino al suicidio rituale del 1970.
Le sue opere – come sottolinea Pietrogiacomi introducendo la selezione dei brani – finiscono per allontanarsi dalla vita, immortalandola in una narrazione che costituisce un algido universo a sé stante. D’altronde la scrittura, soprattutto se autobiografica, ha il fastidioso vizio di mentire, da un lato facendo di esperienze quotidiane un’epica, dall’altro derubricando la stessa vita ordinaria a una mascherata. Ma è una menzogna di cui è intessuto il reale stesso, al di là delle sue mitologizzazioni. E così la maschera si confessa: «A lungo andare la “recita” è diventata una parte integrante della mia natura. Sto diventando una di quelle persone incapaci di credere a nulla che non sia contraffatto». Ad affacciarsi in queste pagine non è la squallida “compensazione” di cui ha parlato un certo freudismo, ma la necessità di far di sé uno stile in un mondo che di stile non ne ha più, di offrire uno sguardo mitico su una realtà che ha rinnegato i miti, fondare le possibilità di un’azione in una società che ha finito per annichilire ogni slancio verticale, rinvenire il sacro dove trionfa il materialismo, optando per «una rivoluzione che sappia eternamente rinnovarsi». Quello di Mishima – e il titolo del volume di Alcatraz coglie nel segno – è il martirio della Bellezza in un mondo che ha negato strenuamente la bellezza. È il cimentarsi con le contraddizioni risolvendole nell’azione.
È sempre in questa prospettiva che va inquadrata la Tatenokai, la mitica Associazione degli Scudi fondata e finanziata da Mishima con i suoi diritti d’autore, un piccolo esercito costituito da cento uomini che avrebbe dovuto ispirare la ricostituzione dell’esercito giapponese, il cui scioglimento fu una delle condizioni della resa incondizionata post-’45. Così Mishima la presentò, un anno dopo la sua fondazione: «L’Associazione degli Scudi è un esercito pronto a intervenire in qualsiasi momento. È impossibile prevedere quando entrerà in azione. Forse mai. O forse domani stesso. Parteciperà soltanto allo scontro decisivo».
Come base ideologica della Tatenokai, Mishima stende una “versione moderna” di Hagakure (è uscita in italiano per Bompiani, con il titolo La via del samurai), opera del monaco guerriero Yamamoto Tsunetomo caduta nell’oblio dopo la sconfitta della Seconda guerra mondiale. Ne resuscita alcuni passaggi, adattandoli al presente, usandoli come cartina di tornasole per diagnosticare la decadenza di un Paese in cui nessuna voce – né politica, né militare – si oppone alla colonizzazione dell’Immaginario ad opera degli americani, rinnegando un’identità legata a un tipo umano ben preciso: «Per noi giapponesi il samurai è l’immagine di un antenato. Per gli occidentali è la figura di un nobile selvaggio. Dobbiamo sentirci fieri di essere selvaggi».
A emergere dalle sue pagine è una rivolta contro il mondo contemporaneo, contro «il terribile virus della democrazia del dopoguerra e dell’ipocrisia che ha generato» (I miei ultimi venticinque anni, 1970), «un’epoca di vasta libertà e di estesi diritti individuali […] in cui ciascuno si sente autorizzato a sostenere a gran voce le proprie opinioni immature o insulse» (Lezioni spirituali per giovani samurai, 1969). Una rivolta innervata da un genio stilistico, estetico e vitalistico (termini qui indistinguibili), che emerge appieno nei frammenti raccolti in Martire della bellezza. Ecco qualche esempio: «Le cose perdonabili sono, in verità, pochissime»; «Niente mi può appagare, subito mi tedia qualsiasi novità terrestre»; «Un giorno decisi di incominciare a coltivare alacremente il mio orto. Usai sole e acciaio»; «Più la letteratura è di buona qualità e più ci comunica l’idea che l’essere umano è condannato»; «Una donna non può essere lo specchio di un’altra donna: possiamo vederci soltanto un uomo, soprattutto se senza cuore»; «Amavo tutti i giovani che venivano uccisi»; «Le tue sono le pupille di uno che ha fissato il sole, e vedono un alone giallo intorno a qualsiasi cosa guardino»; «Temiamo il futuro perché lo valutiamo in rapporto all’accumulo dei ricordi del passato»; «È solo nella vita militare che il volto degli uomini diventa bello».
Come già accennato, vita e arte, stile e azione, entreranno in suprema congiunzione il 25 novembre 1970, quando Mishima, insieme a quattro membri dell’Associazione degli Scudi, occuperà l’ufficio del generale Mashita. Poco prima di commettere seppuku, leggerà il suo Proclama. Eccone un estratto:
«Non possiamo più attendere. Non c’è più motivo di attendere coloro che continuano a profanare se stessi. Insorgeremo insieme ed insieme moriremo per l’onore. Avete tanto cara la vita da sacrificarle l’esistenza dello spirito? Noi ora testimonieremo a tutti voi l’esistenza di un valore più alto del rispetto per la vita. Questo valore non è la libertà, non è la democrazia. È il Giappone. Il Paese della nostra amata storia, delle nostre tradizioni: il Giappone. Non c’è nessuno tra voi disposto a morire per scagliarsi contro la Costituzione che ha disossato la nostra patria? Se esiste, che sorga e muoia con noi!».
Dopodiché entrò nell’ufficio e si aprì il ventre, non prima di aver inneggiato all’Imperatore, all’Imperatore celeste, naturalmente, ben diverso da quello “nuovo”, simbolo dello Stato, costretto dai barbari a deporre il proprio scettro nel fango dell’attualità.