Sylvain Tesson: passaggi al bosco
Nomen omen recita un antico adagio, che vede nel nome il presagio, l’annuncio numinoso di quanto sarà. Sylvain Tesson meditò a lungo sulla locuzione latina tra il febbraio e il luglio del 2010, nella solitudine di una capanna sulle sponde del lago Bajkal (in mongolo Dalai-Nor, “Mare sacro”) nella Siberia meridionale, fra l’oblast’ di Irkutsk e la repubblica di Buriazia. Per affrontare quel lungo ritiro – il primo paese nelle vicinanze era a centoventi chilometri – si portò dietro una gran quantità di libri, sigari e vodka. Per sei mesi le sue uniche occupazioni furono tagliare la legna, pescare per mangiare, osservare il mutare del lago e il progressivo disgelo primaverile, acclimatarsi a quello sbalzo dalla “tomba” della città al “tempio” sacro della taiga. Il diario di quell’esperienza è raccolto nel magnifico Nelle foreste siberiane, edito da Sellerio nel 2012, termometro letterario di una trasformazione interiore coadiuvata dalla cinquantina di libri che Tesson si porta dietro, per riempire i lunghi mesi nelle foreste. Titoli che dicono molto dello spirito con cui lo scrittore affrontò la sua “uscita dal mondo”. Eccone qualcuno: Trattato sulla disperazione di Søren Kierkegaard; Un taxi color malva di Michel Déon; Gilles di Drieu La Rochelle; Walden di Thoureau (ovviamente); Le Chant du monde di Jean Giono; Il sole offuscato di Paul Morand; i Carnets di Montherlant; Il mito dell’eterno ritorno di Eliade; Il padiglione d’oro di Mishima. E poi, le opere di D. H. Lawrence, Ernst Jünger (Trattato del ribelle, Avvicinamenti, Il nodo di Gordio, Ludi africani e Siebzig verweht), James Ellroy, Dashiel Hammett e Capote, Schopenhauer e Le Mille e una Notte, Marguerite Yourcenar e Shakespeare, Chrétien de Troyes e Romain Gary…
Letture che agiscono come un detonatore nella sconfinata solitudine siderale, rivelando al diarista l’omen contenuto nel suo omen. Tesson significa infatti coccio, il frammento «che ha nostalgia dell’unità perduta e che cerca di riconnettersi al tutto». E lo fa in una capanna nei boschi, secondo la vocazione “silvana” racchiusa a sua volta in un nome di battesimo che evoca selve e foreste. La congiunzione segreta tra “silvano” e “frammentario” riunisce così i molteplici rivoli di quell’esperienza: spazio e solitudine, tempo e silenzio, vita dura e meraviglie naturali. Il loro estuario è quel diario, “frammento silvano” che ambisce a tornare totalità.
Un’esperienza possibile solo in una condizione di cattività assoluta, ricercata e chirurgicamente sperimentata, finalizzata a misurare anzitutto il rapporto che l’uomo intrattiene con il tempo, in una società la cui vocazione è semmai divorare lo spazio, nell’utopia internettiana del “tempo reale”. E alla padronanza dello spazio Tesson preferisce la libertà nel tempo, basata sull’accettazione di sé, sul confronto con le proprie fratture, con una tettonica a zolle tutta interiore: «L’eremita deve rispondere a una domanda. È possibile sopportare se stessi?».
Una domanda elusa in continuazione, se non addirittura esorcizzata, dalla società contemporanea. Basata sull’aggregazione coatta di monadi individuali, omogeneizzate e aggregate dai Vangeli laici della dittatura dei consumi, «non ama gli eremiti. Stigmatizza la disinvoltura del solitario che lascia agli altri il suo “continuate pure senza di me”». Una realtà che ha imparato a fagocitare pure le “dissidenze”, facendone vettori da controllare e gestire, invitando nuove minoranze a un gioco continuo e ininterrotto, promettendo un posto al sole a tutti, ma che proprio non riesce a tollerare chi si estranea, rovesciando la scacchiera. L’eremita, in queste pagine, è l’antidoto vivente ai ribelli da salotto, agli anarchici stipendiati, ai bombaroli che rafforzano l’ordine costituito, ai conformisti dell’anticonformismo: «L’eremita ignora l’appello della civiltà, ne rappresenta la critica vivente. Svilisce il contratto sociale. Come accettare un uomo che passa il confine e si affida al primo soffio di vento?».
Questo commiato dalla civiltà in direzione di una natura incontaminata non è un puerile appello romantico dal fondo piccolo-borghese, stile Into the wild, ma l’esatto opposto: «Gli hippy volevano sottrarsi a un ordine che li opprimeva, i nuovi uomini dei boschi vorrebbero sfuggire a un disordine che li avvilisce». Nessun infantile ribellismo, dunque, ma ricerca di un superiore senso del reale, di una Nuova Oggettività.
Basta dare un’occhiata al già citato bagaglio bibliografico di Tesson, dove domina incontrastato Ernst Jünger con cinque titoli, tra cui Il trattato del ribelle. Il cui senso, spesso frainteso, è che il Waldgänger, colui che passa al bosco per resistere allo strapotere della civiltà, non deve necessariamente fuggire, alienandosi dal mondo. Al contrario, può esercitare la propria dissidenza anche rimanendo nella sua comunità, agendo come se si trovasse in un bosco, operando nelle retrovie, magari nell’anonimato di una professione qualunque, per poi intervenire al momento decisivo. (Auto)esiliatosi nella città a cui ha giurato vendetta, il futuro Anarca non partecipa a scontri o manifestazioni, affilando le proprie armi per partecipare a un solo scontro. Quello finale. Una sapienza che emerge anche tra le pagine di Tesson: «Non occorre rifugiarsi nella foresta; l’ascetismo rivoluzionario si può praticare in ambiente urbano». È sufficiente solo decolonizzare il proprio immaginario, mantenendosi impermeabili alle sirene della società moderna; sulle rive del lago Bajkal, Tesson riflette attentamente sul “suo” mondo: «Il paese si prostituisce all’industria e una nuova razza di tecnocrati-affaristi disserta su temi sociopolitici astratti e specula sulla tecnica. È l’agonia di un mondo. Il progresso toglie sostanza al mondo. La demenza “prometeica” infiacchisce l’uomo nel fracasso delle macchine». Una tendenza che finisce per irretire tutto e tutti. Usando i silenzi silvani come pietra di paragone, Tesson misura la pervasività assoluta di una modernità dalla vocazione essenzialmente suicida: «Lo Stato vede tutto; nella foresta si vive nascosti. Lo Stato sente tutto; la foresta è il tempio del silenzio. Lo Stato controlla tutto; qui sono in vigore codici antichissimi. Lo Stato vuole sudditi obbedienti, cuori aridi in corpi presentabili; la taiga trasforma l’uomo in un selvaggio e libera la sua anima».
Alla ricerca del nuovo a tutti i costi che connota il paradigma consumista, la taiga oppone una nuova scuola “controrivoluzionaria”, anzi “reazionaria” («Sono talmente reazionario da preferire l’inizio delle mie frasi alla loro fine» aveva scritto in Une très légère oscillation, edito nel 2017): l’idea di inscriversi nell’eterno ritorno delle stagioni, di incontrare gli dèi nelle forme cangianti del divenire, ponendosi in ascolto del Genius Loci, una bestemmia agli occhi di un sistema che vuole annichilire le specificità dei luoghi operando un’asfissiante omogeneizzazione, esportando modi di vita su scala planetaria e condannando all’oblio quelli più refrattari a essere fagocitati. Oltre a un politicamente corretto, esiste anche un geograficamente corretto.
Ripercorrendo retrospettivamente la produzione letteraria di Tesson (di recente pubblicazione è La pantera delle nevi), non è forse un caso che sia prevalentemente diaristica. Il Journal è infatti una misurazione quotidiana del proprio Io, termometro delle trasformazioni stimolate da una certa esperienza. Tenere un diario, come scrisse Dominique Venner nel suo libro-testamento Un samurai d’Occidente, è una scuola dura, la sola capace di sondare uno stile, un carattere, in questo caso il destino di chi sceglie di isolarsi per affrontare la prova del fuoco della solitudine, sempre più esorcizzata da una contemporaneità che ci vuole sociali e socievoli, perennemente “visibili” e interconnessi:
«La solitudine è una rivolta. Ritirarsi nella propria capanna significa uscire dal campo degli schemi di controllo. L’eremita scompare. Non lascia più tracce digitali, non invia impulsi telefonici né ordini bancari. Si spoglia di qualunque identità».
È la stessa visione che emerge in un altro diario di Tesson, Sentieri neri, edito sempre da Sellerio nel 2018. Dopo un periodo terribile, che ha visto vacillare qualsiasi certezza, a livello lavorativo e familiare (quell’anno muore sua madre), il Nostro è stremato. Una sera, mentre sta passeggiando sul tetto di casa sua, ubriaco fradicio, perde l’equilibrio e cade a terra. Un volo di otto metri – costole, vertebre e ossa del cranio fracassate. Ricoverato e salvato in extremis, gli si prospetta un’estate di riabilitazione su qualche tapis roulant (grandioso simbolo del nostro tempo, per chi non lo sapesse, il tapis roulant è l’evoluzione di uno strumento di tortura impiegato nelle carceri inglesi a partire dal 1818, che costringeva il malcapitato a camminare per ore e ore). Ma che farsene di ammennicoli del genere quando c’è una Francia in cui camminare, una Francia ancora immune alla modernizzazione e all’urbanizzazione, aperta al mistero e allergica alla rapacità della pianificazione? Il “coccio-Tesson” non ha dubbi in merito: per l’ennesima volta, diverrà “silvano”. Recupererà le sue forze sui sentieri, misurandosi sotto i cieli francesi e tra le foreste, all’aria aperta e non recluso tra le quattro mura di una palestra.
Ma i sentieri scelti da Tesson non sono quelli destinati al jogging o al trekking di casalinghe e politici, agli escursionisti, alle famigliole domenicali, agli sportivi o ad attorucoli in vena di “ambientalismo”, puntellati da cartelli, bar e tavoli per i picnic. Tesson sceglie come personalissima cura i “sentieri neri”, malmessi e trasversali, rurali, «piste pastorali istituite dal catasto, punti di accesso per i servizi forestali, linee di confine, antiche viae quasi prive di manutenzione». Sono luoghi caduti nell’oblio, dove pochissimi si spingono e domina incontrastato il silenzio: «Autentici varchi segreti, i sentieri neri evocavano il ricordo di una Francia che si spostava a piedi; erano la rete stradale di un Paese che a suo tempo era stato agricolo». Sono simili ai tragitti descritti negli anni Ottanta dallo scrittore provenzale René Fregni nel suo Les chemins noirs, percorsi da un giovane refrattario alla leva, in fuga dai militari. Stradine attraversate da anonimi (sui sentieri neri nessuno si presenta, domina l’impersonalità, il nomen ha ceduto definitivamente il passo all’omen) e affollate da fantasmi, autentiche fuoriuscite dalla storia e avvicinamenti a un senso dell’esistenza che potrebbe essere definito cosmico: «Certi uomini sperano di passare alla storia; noi preferiamo sparire dalla geografia».
Oltre a favorire la sua ripresa fisica, insomma, l’itinerario di Tesson è per l’ennesima volta soprattutto esistenziale: «I sentieri neri potevano anche definire i processi mentali che avremmo adottato per sottrarci al nostro tempo, si sarebbero prolungati dentro di noi fino a costruire una cartografia mentale dell’evitamento». Come già registrato nei diari siberiani, queste pagine non celano alcuna pretesa rivoluzionaria né palingenetica, ma una scelta estetica, finalizzata a sottrarsi al meccanismo, all’intruppamento passivo, alla continua sorveglianza e al controllo occhiuto di un sistema schizofrenico. Un codice inflessibile, capace di forgiare una nuova forma di umanità, un’ideale “confraternita dei sentieri neri” costituita da chi si muove controcorrente, percorrendo à rebours il cammino della Storia, cui può accedere solo chi tiene alla propria libertà sopra ogni altra cosa, difendendola dal panopticon di potere e media. Questo il motto – epicureo – della società: «Fai dimenticare che sei vivo». Sui sentieri neri, scrive Tesson, si sperimenta un nuovo tipo di signoria: quella su di sé, sul proprio corpo e sui propri pensieri, riallineati nel cammino, tra sentieri soleggiati e angoli umbratili, sparute conoscenze e incontri fugaci, slancio verticale e riappropriazione del tempo perduto.
Insieme alla temporalità, la strada ci permette di riguadagnare il senso autentico del movimento, in una fase storica in cui tutto è letteralmente in moto, sottoposto alla Mobilitazione Totale di jüngeriana memoria: «Nel villaggio globale, ognuno attende il suo turno per un giro di valzer». Alle vecchie età storiche codificate, segnate da una relativa immobilità, ne segue una convulsa e febbrile, nella quale ogni cultura, per sopravvivere e ottenere un riconoscimento, deve mobilitarsi e mobilitare, consacrandosi alla fluidità e ai “contatti”:
«L’ode alla “diversità”, allo “scambio” e alla “comunicazione” tra gli “universi” era il nuovo catechismo diffuso dai professionisti europei della produzione culturale. Questo morbo di Parkinson della Storia si chiamava globalizzazione».
La sua cifra è l’annullamento delle distanze, nell’ottica ludico-turistica mondialista, che riduce il globo a una somma aritmetica di aeroporti tutti uguali, a detrimento di quelle differenze che solo il camminare rivela essere la carne viva dell’uomo e delle civiltà.
È contro la dittatura dell’uniformità a stagliarsi l’iter in silvis tessoniano, denuncia del “dispositivo”, insieme dei condizionamenti che operano sul corpo sociale. Come funziona il dispositivo? Tesson offre un esempio molto illuminante. Esiste un vermicello microscopico, il dicrocoelium dendriticum, che infesta le formiche, paralizzandone i movimenti, cosicché queste sono divorate dai grandi erbivori, futuri ospiti del parassita. Non credo ci sia migliore metafora per definire la tecnocrazia odierna. Ebbene, scrive Tesson, «sui sentieri ci inoltravamo nel silenzio sottraendoci al suo influsso».
Quelli ricordati sono solo alcuni dei passaggi al bosco compiuti da un intellettuale controcorrente e non allineato, che ci indica la necessità di individuare gli interstizi della realtà, le aperture verso qualcos’altro, come ultima possibilità di mantenere una libertà e un’integrità nel mondo odierno, dimostrando di possedere ancora un volto dietro alla maschera, un omen dietro un nomen.