Scienza e fantastico: la Terra Cava di John Uri Lloyd
È un assolato pomeriggio estivo del 1902, siamo a Los Angeles, nella gigantesca sala del Westminster Hotel, vittoriano e un po’ kitsch come solo certi alberghi americani sanno essere. Lo scienziato John Uri Lloyd (1849-1936) sta presentando il suo romanzo Etidorhpa – per la cronaca, Aphrodite al contrario –, cronaca di un’esplorazione fisica e metafisica di mondi sotterranei. Gli viene chiesto quali siano le fonti della sua prodigiosa fantasia, ma Lui smentisce: «Non ho immaginazione. Mi limito a ricordare. Scrivo da immense distanze, dal punto di vista del tempo». E aggiunge, sibillino: «Sono solo gli eventi a farsi più chiari, anno dopo anno». Ma il pubblico non è contento. Vuole saperne di più, lo incalza: «Dirò solo che lo scorso anno, sette anni dopo la sua pubblicazione, ha venduto più che mai» risponde. «Forse il suo intento sarà più chiaro tra mezzo secolo». Sugli intenti si può discutere, ma rimane il fatto che stiamo parlando di un grande successo editoriale. Pubblicato a spese dell’autore nel 1895, dapprima distribuito privatamente, nei primi decenni del Novecento spopolerà, anche grazie alle magnifiche illustrazioni di J. Augustus Knapp. Ai dati “ufficiali” – diciotto edizioni in una manciata di anni, sette traduzioni – si aggiungono aneddoti ancora più eloquenti: Club del Libro dedicati unicamente a quell’opera, groppuscoli che ne fanno una sorta di Vangelo, un boom all’anagrafe di infanti chiamate Etidorhpa… Alle molte edizioni straniere del romanzo visionario ora se ne aggiunge finalmente una italiana, pubblicata dalla casa editrice Diana nell’eccellente traduzione di Monica Paiano.
«Di tutti i romanzi sul mondo interno che ho letto, nessuno è più straordinario e bizzarro di Etidorhpa». A scrivere queste parole è uno che dell’argomento se ne intendeva, vale a dire il Walter Kafton-Minkel di Mondi sotterranei (Mediterranee, 2012), tra gli studi più esaustivi dedicati al mito della Terra Cava. In effetti, il topos letterario di un viaggio sotterraneo alla scoperta di un mondo che il viaggiatore di turno scopre essere “vuoto” è assai diffuso. Basti pensare a opere settecentesche come il Nicolai Klimii iter subterraneum di Ludvig Holberg (1741) o il monumentale Icosaméron, in cui Giacomo Casanova parla di una razza di nani – detti Mégamicri – che vivono all’interno della Terra. Ma è l’Ottocento il “secolo della terra cava”, con opere come Symzonia: A Voyage of Discovery di un certo “Capitano Adam Seaborn” (1823), The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket di Edgar Poe (1838), Viaggio al centro della Terra di Jules Verne (1864), La razza ventura di Edward Bulwer-Lytton, pubblicato anonimo nel 1871 e edito in italiano da Arktos, il satirico A Strange Manuscript Found in a Copper Cylinder di James De Mille (1888) e Mizora: a Prophecy di Mary E. Bradley (1890). Per poi non parlare delle opere a carattere esoterico, legate al Vril, ad Agarttha, alla “storia segreta”…
Fino al singolare Etidorhpa, romanzo (molto apprezzato, sembrerebbe, da H. P. Lovecraft) che mescola stili e registri diversi, dalla narrativa di viaggio al poliziesco, dalla fantascienza al fantastico, fino alla scienza “dura e pura”. Un mélange che riflette la personalità del suo stesso autore. Chimico farmaceutico, presidente della Lloyd Brothers Pharmacists Inc. e, per un certo periodo, della Società Farmaceutica Americana, docente a Cincinnati di “Medicina Eclettica”, John Uri Lloyd estrasse farmaci dalle piante e sperimentò l’impiego di sostanze vegetali a fine medico (inclusi funghi allucinogeni e cocaina). Ma, accanto a queste attività “diurne”, passò tutta la vita a studiare alchimia, spiritualismo e occultismo. Nulla di strano, verrebbe da dire: non furono di certo pochi quei ricercatori “bifronti”, divisi tra razionalismo e mistero, “luci” e “ombre” del sapere.
Sennonché Lloyd intraprese l’ardua missione di coniugare questi due ambiti, gli emisferi destro e sinistro del Nous cosmico. Ad esempio, credeva all’esistenza di poteri non ancora classificati dalla scienza ufficiale, né comprensibili dalla mente umana. In futuro, scrisse proprio in Etidorhpa, «gli uomini acquisiranno un controllo dei sensi periferici, per mezzo di facoltà latenti». Allora, «nello studioso della natura vi sarà uno sviluppo inconscio di nuove forze mentali». Da queste parole emerge quella che è un’apertura senza pari sui misteri del cosmo: se adeguatamente praticata – ciò è fondamentale –, la scienza condurrà a un livello ulteriore rispetto a quello della realtà che siamo soliti frequentare tutti i santi giorni. «Ciò che è esoterico diventerà essoterico». Sembra di leggere Colin Wilson o lo storico delle religioni Ioan Petru Culianu, quando in Eros e magia nel Rinascimento parlò dei «sottili processi della magia, scienza del passato, del presente e del futuro». Soprattutto, in queste righe è condensato il passaggio dall’Ottocento materialistico al Novecento quantistico, ambiguo e relativista, all’insegna del principio d’indeterminazione di Heisenberg. Un secolo in cui il fantastico risorge nel cuore di quella stessa scienza che aveva creduto ingenuamente di esorcizzarlo.
Se le cose stanno così, scrive Lloyd, fenomeni come poteri “ultrasensoriali”, spettri ed ectoplasmi non sono “fantasie infantili” o “residui di epoche premoderne”, ma piani del reale che la scienza non ha ancora indagato. Non per questo vanno esclusi dal campo d’indagine, come secondo la dogmatica del più bieco positivismo, che giudicava reale solo ciò che entrava negli angusti spazi di una provetta. Non c’è contraddizione in questo atteggiamento: la realtà è che Lloyd era un vero scienziato, e come tale ammetteva l’esistenza anche di quanto trascendeva la scienza stessa, non lasciando che lo scientismo soffocasse la sua smisurata curiosità, che qualcuno mettesse un giogo alla sua vasta immaginazione. Una visione del mondo che lo portò a superare anche l’opposizione tra scienze “positive” e “occulte”, come scrisse in Etidorhpa, anticipando di sette anni le teorie di Henri Hubert e Marcel Mauss in Esquisse d’une théorie générale de la magie: «Nell’alchimia vi è la genesi di tutte le scienze di oggi. L’alchimia è la culla in cui esse sono state dondolate. Nutrite dalla necromanzia, dall’astrologia, dall’occultismo e da tutta l’eredità del sogno mistico, le scienze appena nate hanno lottato per l’esistenza attraverso epoche oscure, custodite dall’alchimista un tempo perseguitato e ora calunniato. Il mondo di oggi deve un monumento agli eroi ermetici».
È proprio su questi presupposti che si basa il racconto di cui stiamo parlando. In quello che di fatto è un romanzo nel romanzo, uno scienziato parla di un viaggio nelle viscere della Terra, una missione compiuta per espiare il peccato di aver diffuso alcune conoscenze “esoteriche” apprese durante la frequentazione di una confraternita alchemica. Viene perseguitato dai suoi membri, che, dopo avergli fatto cambiare magicamente aspetto, gli intimano di scegliere tra il manicomio e la missione ipogea. Questa narrazione, tra l’altro, è la trasposizione di un fatto realmente accaduto, oggi finito nel dimenticatoio, il “caso Morgan” del 1826, quando un tale William Morgan, entrato tra i newyorchesi Massoni di Batavia, ne diffuse i segreti in un libercolo, intitolato Illustrations of Masonry. Qualche giorno dopo Morgan sparì e la tipografia che stampò il suo libro venne data alle fiamme da ignoti – fatto che scatenò un’ondata antimassonica mantenutasi per decenni. Il protagonista di Etidorhpa non fa la sua fine, scegliendo la partenza per quel viaggio sotterraneo e seguendo una via molto simile a quella dell’Ancient Mariner della celebre Ballata di Coleridge: «Non sarai ucciso perché hai un compito da svolgere, e continuerai a esistere molto tempo dopo che altri della tua età saranno morti».
Così, nella wilderness del Kentucky l’ex adepto, accompagnato da una misteriosa creatura anfibia, si addentra nelle viscere della Terra. Dopo aver percorso infiniti cunicoli oscuri, i due giungono in una zona luminosa, intravedendo una sorprendente luce provenire dal centro della Terra. Man mano che scendono nelle profondità ctonie, il loro peso decresce e le funzioni corporee rallentano – il cuore batte più lentamente, fame e sete svaniscono. L’aria, dapprima stantia e soffocante, si rivela piena di una febbrile forza vitale, che li ritempra. Seguono paesaggi degni del Viaggio al centro della terra di Verne: distese di funghi enormi, un ampio mare, maestose architetture geologiche… Sono tutti piani dell’Io, tappe di un viaggio iniziatico, di una catabasi che conduce il protagonista alla visione di una serie di stati dell’Essere, fino alla rivelazione finale. Tra l’altro, scrive il Nostro, non è da escludere che un giorno tutta l’umanità dovrà compiere questo iter, quando la scienza avrà provveduto a rendere la Terra un luogo inabitabile, generando «terribili cambiamenti climatici». Siamo nel 1895…
Come molti difensori della vera scienza, infatti, lo stesso Lloyd non si tirava indietro quando si trattava di criticare quella contemporanea, improntata a un materialismo senza pari. I suoi adepti, scrive, aboliscono il corpo, l’anima e il cielo; «vanno come pestilenza e carestia, mano nella mano, negando tutto ciò che l’umanità considera sacro e non offrendo alcun ritorno tangibile se non un materialistico presente. Questa stessa scienza che sembra fare così tanto per l’umanità continuerà ad esaltare la cosiddetta civiltà materiale, fino a quando il pensiero scientifico creerà le condizioni per estinguere se stesso e distruggere la civiltà che ha creato».
A pronunciare queste parole, di un antimodernismo radicale, non era un reazionario, un senile nemico del presente e cantore dei bei tempi che furono, ma uno scienziato. E quella da lui criticata non era la scienza tout court ma la scienza ottocentesca, che negava la molteplicità dei piani del reale. Concludendo: «Diffida del materialismo, la fine della scienza dell’uomo». Nell’introduzione all’edizione italiana di Etidorhpa è inserito un insolito ritratto di Lloyd: è seduto nella sua biblioteca, sommerso dai libri, con uno scheletro appoggiato alla spalla. Accanto a lui s’intravede la tavola scientifica di una pianta, passione di una vita. Ma a colpire è il suo sguardo, che pare assente, quasi non si accorgesse di essere lì. «Sembra lontano mille miglia» ha scritto R. J. Smith (John Uri Lloyd: To Infinity and Beyond, «Cincinnati Magazine», 7 aprile 2015), «intento a sognare temi eterni, visualizzando ciò che unisce una foglia di sassofrasso alla polvere di stelle morte». Uno sguardo forse fisso su Etidorhpa, ansioso di farvi ritorno, insieme a nuovi scienziati, pionieri dell’Altrove e argonauti della Quarta Dimensione, il cui motto potrebbe essere costituito da queste parole, contenute in quello che è e rimane un romanzo straordinario: «Nello studio di qualsiasi ramo della scienza gli uomini iniziano e finiscono con l’Ignoto».