«Era l’ora di andare a dormire, e per Charlotte tutti i volti e le voci si erano dissolti in un solo volto, una sola voce». Si apre così Charlotte Sometimes di Penelope Farmer, uscito nel 1969 in inglese e qualche mese fa in italiano per Agenzia Alcatraz, nella traduzione di Stefania Renzetti. È lo stesso incipit di un’omonima, e immaginifica, canzone dei The Cure. Non è un caso, e ne riparleremo. Inghilterra, fine anni Cinquanta. Quando Charlotte Makepeace mette piede per la prima volta nel freddo collegio cui è stata iscritta, ancora non sa che il letto destinatole è una sorta di varco spazio-temporale, che nel corso della notte la farà finire nel 1918. Un semplice viaggio nel tempo? Qualcosa di più: un perturbante scambio d’identità, che la sostituisce a un’altra ragazzina, di nome Clare Moby. E questo processo si verificherà ogni notte, tantoché le co-protagoniste vivranno a giorni alterni in due epoche, senza mai incontrarsi. Troveranno però il modo di comunicare, passandosi messaggi dagli anni Dieci ai Cinquanta, usando come “diario” le pagine ingiallite di un quaderno di esercizi.
È l’antico tema del Doppelgänger, particolarmente caro all’autrice, che tra l’altro ha una sorella gemella – e, come se non bastasse, ambedue sono cresciute nella West Heath Girls’ School a Sevenoaks, nel Kent, che ha fatto da modello al collegio del romanzo. Lo hanno frequentato negli anni Cinquanta, gli stessi in cui vive Charlotte. Ma, dettagli biografici a parte, c’è qualcosa di più. Il transfert d’identità, come già detto, si produce a giorni alterni. Charlotte è sé stessa – espressione che perde i propri connotati, facendo vacillare lo statuto ontologico del reale – solo a intermittenza. Un giorno è nel ’18, l’indomani nel secondo dopoguerra; pochi segnali marcano il passaggio da un’epoca all’altra in quel microcosmo che è la cornice narrativa – gli allarmi antiaerei e i festeggiamenti per l’armistizio, che segnano l’ingresso del “mondo esterno” tra le pieghe del presente di Clare e del futuro di Charlotte.
D’altronde, che l’autrice nutra una certa predilezione per i viaggi nel tempo non è un segreto. Se in Charlotte Sometimes tutto accade senza una spiegazione, come se si trattasse di un fenomeno del tutto naturale, c’è un altro romanzo di Penelope Farmer, Emma in Winter (1966), che con il primo condivide alcuni personaggi, nel quale viene citato un articolo scritto da Elijah Makepeace, nonno di Charlotte, dedicato al tema. Si parla della struttura non-lineare del tempo, visto come una spirale a molla, che se tesa può portare momenti temporali diversi a sfiorarsi, di fatto agendo nel passato attraverso il futuro e viceversa.
In questo caso, tuttavia, il transfert temporale è legato all’identità in cui si ritrova costretta da un giorno all’altra la piccola protagonista. Qui emergono pagine sorprendenti, che rendono questo romanzo fantastico qualcosa di più di un semplice “libro per bambini”, come spesso viene definito. Nell’avvicendarsi dei capitoli non è facile capire – la narrazione è volutamente nebulosa – quanto dell’aspetto esteriore di Charlotte resista al time travel. Insomma, è lei oppure no? Come stabilirlo una volta per tutte? Be’, ci sono gli altri personaggi, anzitutto, resi a loro volta intermittenti dalla comparsa e scomparsa della giovane. Ma… c’è un ma. Quando compie il primo viaggio tra le pieghe del tempo, nessuna delle compagne di classe sembra accorgersi del cambio d’identità. Nemmeno Emily, migliore amica di Clare, che quando la vede la prima volta la tratta come se nulla fosse accaduto. Com’è possibile? Forse le due ragazzine si somigliano? Fino a un certo punto. Il fatto è che tutti si aspettavano di vedere Clare e… l’hanno vista, anche sotto le fattezze del suo “doppio” (il quale, a sua volta, non fa nulla per smentire, terrorizzato dalla situazione). Da fiaba gotica, il romanzo assume tutt’a un tratto ben altre fattezze:

«Si ricordò di essersi guardata allo specchio una volta e di aver cercato di tracciare il proprio viso, e di come, dopo aver osservato i suoi lineamenti per un po’, sembrava che non formassero più il suo volto, né quello di qualcun altro. Erano solo un insieme di occhi, naso e bocca. Forse, se fissassimo qualcuno in quel modo, i volti si disintegrerebbero alla stessa maniera, al punto tale da non poter più dire se li conosciamo o no – soprattutto, ovviamente, se non ci fosse motivo per cui non debbano essere chi dicono di essere. Inoltre, pensò con un senso di disagio, cosa accadrebbe se le persone non ci riconoscessero? Sapremmo davvero chi siamo? Siamo una persona in particolare solo perché la gente ci riconosce come tale?».

È il tema dell’identità come patto intersoggettivo, non un dato da cui partire ma una dinamica da suscitare – e, magari, dominare –, creandola e ricreandola cotidie. Un fantasma da manipolare, come scrivevano i rinascimentali, la cui natura non è solo materiale ma pure sottile. «Una congiura» la definì Colin Wilson, uno che di paranormale se ne intendeva – e pure di viaggi nel tempo, ma è un altro discorso. Insomma, il contenuto di questo libro è molto serio, spalancando le nostre certezze quotidiane su una realtà ignota ma maledettamente familiare, nella quale reale e narrazione del reale collassano, come i volti e le voci agli occhi della piccola Charlotte. Un’alterazione narrativa, un Grande Gioco di cui bisogna conoscere le regole. L’identità – così come la storia – è una congiura? Meglio, allora, scegliersi bene i congiurati. O, per usare il linguaggio della Farmer, sapere fino a che punto tendere la molla che disintegra e ricrea il continuum spazio-temporale, rinarrando-ricreando il passato e tracciando il futuro. L’impettita storiografia, in fin dei conti, non fa altro, nella sua pretesa “obiettività”. E nemmeno il potere e la sua narrazione, ma anche questo è un altro discorso, che ci porterebbe molto lontano.
Nel caso del romanzo di cui stiamo parlando, la scelta è singolare – anzi, le scelte, dato che l’edizione di Agenzia Alcatraz contiene anche il finale alternativo, realizzato dall’autrice in occasione della nuova edizione del 1985. Non l’anticipiamo solo per non rovinare la lettura.
C’è però un fatto che merita di essere ricordato. Nel 1981 esce in singolo un brano dei The Cure intitolato Charlotte Sometimes (antologizzato cinque anni dopo in Standing on a Beach. The Singles 1978-1985), insieme a Splintered in Her Head, sempre ispirato al romanzo della Farmer, il cui figlio, un giorno, torna a casa da scuola dicendole: «Mamma, lo sapevi che c’è una canzone intitolata Charlotte Sometimes?». Sbalordita, si precipita in un negozio e recupera il disco. La musica è spettrale, i giri di chitarra rarefatti, le tastiere quasi metafisiche. L’esordio: «All the faces / All the voices blur / Change to one face / Change to one voice», è lo stesso del romanzo. Il seguito della storia lo ha raccontato la stessa autrice sul suo blog Rockpool in the Kitchen, in un testo riportato in appendice al libro di Alcatraz. All’acquisto segue un contatto con l’agente e qualche controversia legale, che però non ha seguito. È vero, il gruppo non l’ha avvisata del “prestito”, ma il pezzo, divenuto molto popolare, assicura al romanzo un’incredibile longevità editoriale. Lettori tra i più disparati cominciano a scriverle, i giornali musicali riportano confessioni di ragazze che dicono di essere schizofreniche e si ribattezzano Charlotte, uno yacht chiamato Charlotte Sometime si aggiudica il secondo posto nella regata di Cowes…
Finché il 31 maggio 1996 i Cure suonano ad Hammersmith, dove vive Penelope. Tramite il suo agente riesce a ottenere un paio di accrediti per il backstage, dove finalmente incontra il leggendario Robert Smith, voce e anima del gruppo, iconico nel rossetto sbavato, nel cerone e nei capelli cotonati. In una mano ha una lattina di birra, nell’altra una copia della prima edizione economica del romanzo. Le chiede una dedica, porgendole il libro, malconcio e fittamente sottolineato.
«Si può vedere quanto mi abbia ispirato» dice, «e quanto io l’abbia saccheggiato».
Lei si mette a ridere, mentre il suo interlocutore si scusa per la birra: «Devo mantenere la gola in forma». Dopodiché, promette di suonarle la canzone nei bis.
Il concerto non è un granché, complici vari problemi audio. Finché arriva la parte finale: il gruppo esce e rientra, dopodiché chitarre e tastiera intonano le note della canzone, tra un boato del pubblico. La dedica è a Penelope Farmer.
Favore restituito.

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