Nel 2015 sono stati 108mila gli italiani costretti ad espatriare in cerca di un futuro migliore.

E chi rimane?
«Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose»
(Ecce bombo, 1978)
La notizia che tutti i giornali hanno riportato con grande enfasi, cioè che secondo il rapporto Caritas-Migrantes nel solo 2015 quasi108 mila nostri connazionali hanno lasciato l’Italia, mi addolora ma non mi stupisce.
Essere italiani oggi è molto faticoso, nessuno ti regala niente e su questo possiamo essere in parte d’accordo, l’etica del sacrificio potrebbe avere un senso se poi questi sacrifici venissero ripagati ma non sempre è così, anzi quasi mai l’impegno e la cosiddetta “gavetta” vengono premiati. E tantomeno vengono premiate le reali capacità. Soprattutto nessuno ti perdona niente. Non esistono seconde possibilità. Si parla molto di disoccupazione giovanile, è molto in voga l’acronimo “NEET” per indicare i ragazzi che che non sono iscritti nè a scuola nè all’università, che non lavorano e che non seguono corsi di formazione; si dice che l’Italia non è un Paese per giovani, e questo è evidente, il dato è peraltro confermato dal rapporto della Fondazione Migrantes la cui analisi per classi di età mostra che la fascia 18-34 anni è la più interessata al fenomeno migratorio in uscita (36,7%).

Ma nessuno pensa a quanto possa essere difficile la ricollocazione nel mondo del lavoro a 35, 40 o 45 anni. La ricerca in questione evidenzia anche questo dato, passato come al solito in secondo piano: il 25,8% degli espatriati è compreso in un range di età dai 35 ai 49 anni.
Nessuno parla mai della disoccupazione di ritorno, di quanto possa essere umiliante, frustrante e degradante mandare centinaia di curriculum senza risposta, fare i soliti concorsi dall’esito scontato, i soliti colloqui che non porteranno a nulla e sentirsi ripetere sempre le solite scuse: la crisi, non è il momento giusto, sei troppo qualificato, sei poco qualificato, non sei “adeguato”, cerchiamo altri profili. Sei troppo vecchio, a quarant’anni. Vecchio no, disilluso sì.

Inutile e fuorviante,  per giustificare il precariato dominante, tirare in ballo i sistemi anglosassoni o statunitensi dove vige una reale flessibilità e dove la mobilità è un valore e dove, soprattutto, il merito è un valore. L’Italia non è l’America, se da una parte il nostro è un Paese che non tollera il successo – anche in virtù di un retaggio cattocomunista -, tollera ancora meno il talento: se non fai parte dei soliti giri, dell’élite dei salotti buoni, se non hai una buona famiglia alle spalle o solidi legami con una certa politica, puoi star sicuro che la strada è tutta in salita. Difficilmente ti verrà data una chance. E sarà quasi impossibile che te ne venga data una seconda.

La meritocrazia non esiste, anzi laddove c’è il merito questo viene visto col fumo negli occhi, viene ostacolato perché renderebbe troppo evidente la mediocrità imperante e impraticabile la logica della raccomandazione. Il mediocre è un conformista manovrabile, non dà fastidio, non ha spirito critico, non ha libertà di pensiero e solitamente non ha neanche dignità. E’ un servo sciocco buono per tutti i padroni.
Sia ben chiaro, è facile scaricare la colpa sullo Stato, sul Governo, sulla politica, sulla società. Tutte entità generiche. La verità è che lo Stato e la società sono fatti dalle persone in carne e ossa, da tutti noi. Una volta la morale era riferita ai comportamenti individuali e anche sociali: si riteneva cioè che se gli individui si fossero comportati bene, questo sarebbe andato a vantaggio del corpo sociale. Oggi è il contrario. Si ritengono superate le regole morali tendenti a disciplinare i comportamenti individuali e si ritiene superata l’etica del lavoro. Perché il lavoro dovrebbe avere un’etica. E una dignità. Ci apprestiamo a votare il referendum sulla riforma costituzionale, l’unico articolo che avrebbe davvero senso modificare è l’articolo 1: “L’Italia è Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

Ma quale lavoro? O meglio, per chi?

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