Talmente “bastardo dentro” da arrivare a tutto, ma proprio a tutto, pur di raggiungere il risultato. Stiamo parlando di Frank Underwood, protagonista di House of Cards, una delle serie tv più  discusse in America e  da noi. Le ragioni del successo sono molteplici. Dal cast di notevole spessore (il fuoriclasse Kevin Spacey e l’ottima Robin Wright), la buona sceneggiatura, la trama, il fascino degli intrighi di palazzo, il robusto budget (100 milioni di dollari per le prime due serie). Ma è soprattutto una cosa che colpisce: la cattiveria del protagonista, un uomo senza peli sullo stomaco che ci porta nei meandri della politica, mostrandocene un’immagine raccapricciante, fatta di sporcizia, sotterfugi e le peggiori nefandezze. Eppure è un personaggio che, sotto sotto, affascina. Sì, insomma, Frank Underwood ci porta dalla sua parte, ci fa tifare per lui. E, forse, anche vergognare un po’. E che dire della moglie di Underwood, Claire? Addirittura peggio di lui per cinismo.

Per cercare di sviscerare il fenomeno House of Cards ho chiesto aiuto ad alcuni esperti di tv, politica e di Stati Uniti: Maurizio Caverzan, Guia Soncini, Alessandro Tapparini, Luca Bocci e il professor Giorgio Simonelli. Tutti hanno visto la serie e si sono fatti un’idea ben precisa. I loro punti di vista sono estremamente interessanti. Ci aiutano a capire meglio una delle serie tv che, nel bene o nel male, ha lasciato un segno nella storia della tv.

Maurizio Caverzan: “Il malvagio Frank ci ha reso suoi complici”

La serie tv piace per molti motivi: è ben recitata, i personaggi sono carismatici, l’ambientazione è perfetta, ci sono alcune trovate narrative (lui che guarda in camera, gli sms rivelati, tutte tecniche che aumentano il grado di partecipazione e complicità del telespettatore)… Ne ho scritto su il Giornale Style nel numero di Ottobre…

Vediamo alcuni stralci dell’articolo:

Niente da fare, ha vinto lui. Il malvagio, ambiguo e spietato Frank Underwood, vicepresidente degli Stati Uniti nella seconda stagione di House of Cards, cui presta volto e machiavellismi un inarrivabile Kevin Spacvey. Ha vinto lui perché ha conquistato il potere che inseguiva dall’inizio. Ma soprattutto perché ci ha portato dalla sua parte, rendendoci suoi complici (…). La serie ha stregato una buona fetta di pubblico “alto” anche in Europa e in Italia. In tempi di crisi dei talk show, di narrazioni stantie e diffuso primadonnismo di politici e conduttori, House of Cards si mostra assai più capace d’interpretare lo spirito del tempo, fornendo ulteriori ragioni per diffidare del Palazzo. Non che esistano politici come lo squalio Underwood, almeno speriamo. ma un episodio della serie ci illustra quali sono i meccanismi della casta più di tante ore di dibattiti televisivi sulle istituzioni (…). Mellifluo, cinico e calcolatore, freddamente convinto che “o cacci, o sei cacciato”, Underwood mette in atto ogni tipo di manovra, omicidio compreso, se avverte che qualcuno può intralciare i suoi disegni (…). L’unica che gli tiene testa quanto ad assenza di scrupoli è la moglie Claire, la fascinosa Robin Wright…

Tenete bene a mente questa parte dell’analisi di Caverzan: House of Cards, in buona sostanza, piace perché mostra il marciume della politica, ce lo spiattella in faccia. E il “mascalzone” la fa talmente sporca da risultarci, alla fine, quasi simpatico. Perché chi gli sta in torno, in fondo, non è migliore di lui.

Alessandro Tapparini: “Una serie che è arrivata al momento giusto”

Tendo a scartare tutte le letture che attribuiscono il successo di HoC al binge-watching, al nuovo modo di spararsi le serie TV bulimicamente, scaricandole dal web in blocco (cosa che peraltro io non ho mai fatto, eppure), e/o all’analisi dei “big data” degli spettatori di Netflix. La serie TV americana è tratta da un libro che non è un libro americano, né ambientato in America. E non è un libro recente. Si tratta di un libro inglese, anzi una serie di tre libri, il primo dei quali fu scritto esattamente un quarto di secolo fa, nel, e l’ultimo dei quali esattamente 20anni fa, nel 1994. Io credo che il segreto del successo di HoC sia molto più elementare: è arrivata al momento giusto, in un momento in cui domina la disillusione nei confronti della politica e del potere. Il tema della serie, alla fin fine, è uno solo: chi comanda arriva lì grazie a sanguinaria ferocia e luciferina spregiudicatezza. I coniugi Underwood sono una splendida caricatura del cliche dei politici senza scrupoli assetati di potere. L’America reduce dall’era Clinton si era innamorata di The West Wing: serie che celebrava quasi pedagogicamente i più edificanti modelli di politica buona e nobile. L’America di oggi trova invece liberatorio vedere “smascherato” l’esatto contrario; tanto più se ciò avviene in modo volutamente teatrale, con un “accordo” che sdrammatizza (il continuo “sfondamento della quarta parete” di Frank che parla e guarda in camera, vecchio trucco shakespiriano, crea una fondamentale complicità con lo spettatore). Forse questi anni di presidenza Obama c’entrano qualcosa.

Ma vorrei aggiungere una cosa. L’interpretazione-capolavoro di Spacey probabilmente viene dalla sua caricatura di Jack Abramoff in “Casino Jack” (2010). Inclusi quei monologhi che, guarda caso, sono la chiave di volta del suo Frank Underwood (guarda la scena del monologo allo specchio).

Guia Soncini divide in categorie i fan della serie tv. Ne viene fuori uno spaccato socio-antropologico davvero interessante.

Credo che gli uomini fan di HoC si dividano in tre tipologie. Quelli che lo guardano per aspirare a: quindi è così che si fa, quindi se voglio diventare uomo di potere questo è il manuale d’istruzione. Quelli che lo guardano per sentirsi rassicurati ed esorcizzare: sì, certo, ma questi sono americani, da noi non funziona mica così, da noi è tutto più abborracciato e goffo e non davvero pericoloso. E quelli che hanno bisogno della copertura politica per raccontare a se stessi e agli altri che non stanno guardando quel che stanno guardando: la più laconica ed esatta rappresentazione di un matrimonio da un paio di decenni in qua. Le donne, che sono meno complessate, lo guardano rendendosi conto che è la storia di un matrimonio. Poi è anche tutto il resto, ma innanzitutto è quello: il davanzale su cui fumano la sera.

Interessante il confronto che Luca Bocci fa tra la serie originale, quella inglese, e quella americana con Kevin Spacey

Nel Regno Unito si ricordano ancora l’originale della Bbc – meno hollywoodiano come produzione ma forse ancora più agghiacciante perché colpiva vicino a casa. Il “segreto”? Mah, non saprei. Kevin Spacey è estremamente “likeable” come personaggio ed attore. La figura della moglie è stata resa in maniera forse più efficace nella versione USA da Robin Wright, assolutamente priva di scrupoli. La seconda serie è stata decisamente accolta peggio della prima – anche perché hanno deciso di anticipare di MOLTISSIMO la morte della giornalista (nell’originale succedeva negli ultimi 5 minuti dell’ultima puntata), che era l’unico personaggio “umano” dello show. House of Cards funziona perché fa vedere i retroscena della politica come la gente mediamente informata ed educata se li aspetta, senza però eccedere nel moralismo – anzi, il moralismo così tipico delle serie Usa stavolta non c’è quasi per niente. Frank è un democratico (ovviamente) ma è l’opposto del presidente Bartlett di West Wing (ancora insuperabile come serie politica). La cosa “giusta” la fa solo se gli fa comodo per avanzare il suo piano. Da un punto di vista è la serie più onestamente politically incorrect in giro – anche se, a ben vedere, gli assist ai Dems ci sono. Forse funziona perché non ci si trovano i fin troppo evidenti “lanci” per le iniziative che la sinistra democratica vorrebbe portare avanti. Chiunque sia informato e segua l’attualità politica non può che restare stomacato dai “crossover” che si trovano in serie dedicate al pubblico generalista, specialmente quando le elezioni si avvicinano. HoC parla di politica dando per scontato che lo spettatore sia informato, sappia di cosa si sta parlando, senza perdere troppo tempo a spiegare le minuzie dei regolamenti o delle issues in discussione, ma allo stesso tempo senza parlare ad un pubblico di iniziati cercando di impressionare i recensori delle riviste politiche che piacciono alla gente che piace. Finora si sono affidati all’originale Bbc, un capolavoro ma forse troppo understated e parrocchiale per funzionare all’estero. Da ora in avanti sono in territorio sconosciuto, vedremo se saranno in grado di camminare con le proprie gambe. Lo shock-value ed il “cattivismo” possono spiegare parecchio, oltre alla bravura degli attori e degli sceneggiatori, ma la vera cartina di tornasole la fornirà la terza serie.

Giorgio Simonelli preferisce Don Matteo

Decisamente fuori dal coro la voce del professor Simonelli, docente di Giornalismo radio e tv (Università Cattolica). A lui HoC non piace per niente. E lo dice senza mezzi termini.

Non sono un fan di questa serie. La trovo abbastanza prevedibile, inserita in questo contesto oggi prevalente del cinismo. I personaggi parlano come un libro stampato, con dialoghi talmente perfetti da apparire surreali. La scelta delle frasi di alcuni protagonisti è troppo icastica, a partire dall’uso di certe metafore. Insomma, c’è una ricercatezza quasi fastidiosa. Si tratta di una fiction che trovo decisamente sopravvalutata, frutto di un passaparola modaiolo che alimenta un circolo molto autoreferenziale. Tutto, insomma, è estremamente calcolato. Compreso il cinismo dei protagonisti. La loro freddezza è esasperata proprio per stupire. In un mondo in cui tutti si sentono Shakespeare mi permetto di ricordare che di Shakesperare ce n’è stato solo uno…

Il professor Simonelli ammette di non essere un grande fan delle serie tv americane. La butta sul ridere: “Preferisco la semplicità di Don Matteo”.  E mette le mani avanti: “Sa, sono un critico all’antica”. Ma insistendo un po’ si sbilancia. C’è una serie, tra le tante prodotte negli Usa, che anche lui ha amato e apprezzato. Si tratta di Mad Men, quella che parlava dei pubblicitari americani negli anni Cinquanta e Sessanta. “C’è una grande capacità di raccontare quegli anni. L’ho trovata molto interessante”. Non gli parlate di House of Cards, però. Per lui si tratta solo di “acqua fresca”.

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