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L’imposizione forzosa della globalizzazione è arrivata al capolinea. La tipologia di mondo che hanno provato a raccontare come il migliore tra quelli possibili viene ricacciata dalla volontà popolare. L’autodeterminazione dei popoli sta riconquistando il suo spazio nella storia. La Brexit e la vittoria di Trump potrebbero essere solo i primi due grossi segnali. La favola neoliberista del villaggio globale, multiculturale,  relativista, sovranazionale, cosmopolita, politicamente corretto e sradicato da qualunque radice identitaria si sta sbriciolando alle basi della sua stessa trama.

Vi racconteranno che Donald Trump è stato eletto dai contadini, dai pistoleri texani, dai vecchi ( li chiameranno così), dai bianchi non laureati, dai razzisti, dalle casalinghe, dalla lobby delle famiglie numerose, dagli hackers russi, da Chuck Norris, da quelli “antropologicamente inferiori “, dai frequentatori dei poligoni che arrotolano il bacon attorno ai fucili, dai nazisti dell’Illinois, dalla setta delle Harley Davidson, dai cani del signor Burns e dal fantasma del Natale passato. Proveranno ad imporlo nel cervello ai giovani, a quelli che adorano chiamare “millenials”. La deontologica precareità lavorativa generazionale, del resto, rappresenta l’ultima arma per tenere in piedi un sistema che non regge più. Ci tengono a far sì che questo non cambi. Lo impone la sacra legge del produci, consuma, crepa. Come potremmo permetterci di pensarla diversamente? Saremmo populisti! E populismo, nella lingua corrente, è qualunque cosa provi ad opporsi all’establishment precostituita. Il protezionismo per ora solo elettorale di The Donald è pericoloso: potrebbe fare breccia nelle menti di milioni di studenti convinti che la salvezza si trovi sempre altrove, sempre fuori, sempre al di là della comunità nazionale. L’esterofilia a tutti i costi. Costretti a pensarlo ma, al contempo, tenuti scientemente all’oscuro di qualunque alternativa. L’inoppugnabilità del pensiero unico, poi, passerà necessariamente per la solidarietà agli studenti ed ai professori scandalizzati dei circoli culturali americani, quelli degli “after work parties” che manifestano con sdegno sotto la Trump Tower increduli per l’esito elettorale, convinti di essere i migliori, i giusti, la parte sana della società americana. “Harvard bastards” li definiva Richard Nixon. La medesima partecipazione emotiva che si doveva alla consistente maggioranza (sic!) di giovani pro-remain della Gran Bretagna: un’enorme balla perpetratasi nei mesi e rivelatasi figlia di calcoli approssimativi di statistici improvvisati. Bastò aspettare qualche settimana, infatti, per giungere alla conclusione che agli edulcorati della generazione Eramus, di questa Brexit, non importava poi molto, avendo deciso in larga parte di non andarci proprio a votare. Lo scontro c’è stato sì ma tra classi sociali, non certo tra generazioni. Vedrete che scopriremo lo stesso rispetto il trionfo del tycoon. Nel frattempo ci faranno bere qualche castroneria.

Il sapere universitario, con le dovute eccezioni, non consente, inoltre, di fuoriuscire dall’intimazione per cui ciò che non è intellettuale è consequenzialmente sbagliato per definizione. Così, il trionfo di un leader mondiale sfacciatamente anti-intellettualista, produrrà l’isteria da biglietto aereo di sola andata per lidi lontani dal regno del ” falò delle vanità intellettuali”, parafrasando Jonathan Lethem, lo scrittore più attento ai fenomeni popolari ostili all’intellighenzia degli States, titolare della cattedra di scrittura creativa che fu di David Foster Wallace. Nessun accenno riguardante l’impopolarità della Clinton si leverà dai cattedratici d’Italia, nessuna disamina sullo spegnersi della propulsione della litanìa lib-dem, nessun riferimento alla fondazione Clinton e alle decine d’inchieste giornalistiche che hanno contribuito a sollevare fortissimi dubbi sulla bontà politica delle intenzioni della coppia nata tra i banchi di Yale. Tranne qualche rivoluzionario isolato. Donald Trump sarà il prodotto, per i neocritici del suffragio universale, della morte del pensiero cogente, della fine della logica ragionativa, della mancata mediazione dell’equilibrio comportamentale che dovrebbe naturalmente muovere le maggioranze silenziose. Un giudizio aprioristico che neppure stavolta si concederà il lusso di valutare nel tempo. Il coro unanime dei radical chic delle redazioni, dei registri di classe, dei salotti buoni e delle pubblicazioni scientifiche: “Another Brick in The Wall” nella speranza di salvare il pensiero unico mentre il muro del politicamente corretto viene distrutto democraticamente per sempre.

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