calcioUn campetto di calcio. Una palla. Due squadre di ragazzini. Giocano. Sugli spalti papà e mamme tifano. Gridano. (Troppo) spesso, esagerano. Fin qui – per chi non bazzica i campetti – è la norma.

Qualche giorno fa a Forte dei Marmi durante la Universal Cup – torneo per bambini classe 2004 (10 anni per intendersi)  – un gruppo di genitori è andato ben oltre, fino a fischiare ogni volta che i ragazzini di colore toccavano la palla.  La denuncia in un twitter di 12 taglienti parole del procuratore Mino Raiola: “Shock UniversalCup inc. Milan/PSG cl2004 genitori hanno fischiato ragazzi di colore. Sosteniamo i ragazzi, i razzisti sono ignoranti e deboli”. E meno male.

Gli organizzatori hanno condannato l’episodio, ma hanno anche voluto precisare che “non si è trattato di cori razzisti ma è stata contestata la scelta di schierare in campo giocatori fuori quota e quindi fisicamente più prestanti” .

Vale la pena ricordare che stiamo parlando di ragazzini di dieci anni. Li chiamano “Pulcini” nel campionato, tanto per dire. Eppure pare che genitori e spesso anche allenatori (e allenatrici) non se ne ricordino.

Invece i genitori dei piccoli calciatori hanno dei doveri e i bambini dei diritti. Sono stati elencati in una carta che la Federazione del calcio ha realizzato proprio per il settore giovanile. Eccola. Dovrebbe essere affissa su ogni campetto. E dovrebbe finire nella sacca insieme alle scarpe, alla maglia col numero di ogni bambino. Questo il link

Carta_diritti_06

Il numero 1 è il diritto di divertirsi e giocare. Il numero 10 il diritto di non essere un campione. 

Ecco cosa scrive nell’introduzione la Figc: “L’approccio educativo del mondo del calcio è troppo spesso uno specchio attraverso cui si riflettono comportamenti ed atteggiamenti degli adulti. Quindi, competitività esasperata, esclusione dei più deboli e dei meno dotati, accentuazione dell’aspetto fisico ed agonistico. Questa Carta, tra i suoi diversi principi, ci ricorda invece quanto sia importante assumere il punto di vista dei bambini. Non solo prestazioni e ansia di vittoria, ma divertimento, partecipazione, festa. E il calcio è il tipico gioco di squadra che può anche far sviluppare il confronto, la cooperazione, lo scambio” (cliccando qui potete leggerla interamente).

Chi iscrive il proprio figlio a una scuola di calcio pensando che sia come un qualsiasi corso di nuoto, tennis o qualunque altro sport si rende conto ben presto che è tutta un’altra storia.

Mi spiego. I bambini in campo giocano. I genitori ogni sabato e a volte pure la domenica vivono le partite dei figli come fossero squadre di Serie A.  Incitano i propri figli come fossero macchine da guerra. Ognuno dei papà  pensa di avere in campo il talento (inespresso per molteplici motivi…) Educazione, rispetto sportività non sono la regola.  E non sul campo, dove addirittura fino a una certa età non c’è neppure l’arbitro perché i bambini devono fare da soli. Paradossalmente proprio tra coloro che insegnano con il loro comportamento.

I genitori di squadre opposte si guardano in cagnesco (spesso),  Le urla rimbalzano sui piccoli giocatori che: A) non possono sbagliare, B) perdere la palla C) (peggio) non fare gol portando la vittoria alla loro squadretta.

Per fortuna non succede sempre e dappertutto. E accade anche che qualcuno si ribelli quando la misura è colma. Un paio di anni fa Alessandro Birindelli, ex campione di Italia con la Juventus e all’epoca allenatore delle giovanili del Pisa ritirò la sua squadra per colpa delle liti scoppiate tra i genitori? Il caso? Un passaggio sbagliato: ovvero un ragazzino che non riesce a dare la giusta direzione alla palla…

Il papà di un suo compagno di squadra pretende il cambio in malo modo e il genitore del bambino in questione si risente. Sono urla che arrivano fin sul campo di gioco. Le sentono i bambini e le sente anche il mister che per fortuna non lascia correre. Prima avvisa: “Se continuate ce ne andiamo”. Poi mantiene la promessa. Niente partita per colpa di chi deve dare l’esempio: i genitori. 

In quel caso le polemiche sono poi proseguite perché, in quel caso, la Figc sanzionò la squadra e l’allenatore con sconfitta a tavolino, un punto di penalizzazione e persino una multa…

Ci sono nel calcio dei bambini tante piccole-grandi cose che forse sarebbero da rivedere.

E’ giusto che a otto anni un bambino si veda recapitare a casa una lettera a fine stagione in cui gli viene detto che l’anno successivo non potrà più giocare nella squadra perché vengono selezionati solo quelli – ritenuti- migliori?

E’ giusto che all’interno della stessa scuola vengano a un certo punto divisi in squadre “A”, “B” e “C”  (guardacaso) a seconda delle proprie abilità? O più spesso a secondo del fisico perché – proprio come è successo a Forte dei Marmi – nella competizione tra bambini evidentemente la diversa corporatura fa la differenza…

Chi non si sente all’altezza molla. Nonostante la passione per il pallone, nonostante la voglia di giocare e di migliorare.

Per fortuna a volte si trovano allenatori che ci mettono del proprio. E fanno la differenza. Ecco la “Lettera alla mamma di un bambino scarso che vuole smettere di giocare“. Siamo in Umbria, a Passaggio di Bettona in provincia di Perugia. La lettera è per convincerla a non ritirare il figlio. Finisce così: “Se lascia perché suo figlio “è scarso” diventa come quelli che credono di avere il figlio “forte” e sbraitano fuori dalla rete, peggio dei cani randagi, pretendendo spazio e importanza. E questa fine non se la meriterebbe, non la rappresenterebbe. Nel calcio ci vorrebbero più bambini come suo figlio e più genitori come lei. Pensaci e pensateci, anzi: ripensateci!”.

Anzi. Ripensiamoci tutti.

 

 

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